ArchivioAntropologicoApolito n°10 - 4.3.2023
C’è un’Italia che vuole dialogare. C’è un’Italia che non alza muri, non chiude porti, non fa morire la gente in mare. Questa Italia c’è, solo che negli ultimi anni ha taciuto, non si è fatta presente, ha lasciato che fossero gli altri a urlare, coloro che erano spaventati da ciò che non conoscevano, ciò che era diverso da loro. E coloro che su questo ci hanno speculato, hanno costruito le loro sordide fortune politiche. Che la storia seppellirà sotto un velo di ignominia.
Io la vedevo a Campusinfesta, lo ricordo, l'Italia del dialogo, c’era, e io in quella continuo a riconoscermi. Non nell’altra, che urla spaventata, ma nell’Italia che dialoga, e che danza i ritmi di tutto il mondo.
Musica popolare che è jazz. Perché il jazz ha questo di straordinario: non chiede la provenienza, non chiede il sangue, non chiede carte d’identità, il jazz chiede solo di suonare insieme. Se si può, qualunque origine, qualunque sangue, persino senza carta d’identità, va bene, purché vi sia musica suonata insieme. Zampogne montanare, tamburi campagnoli, chitarre urbane, e poi voci di questo e di altri mondi, e ritmi e danze e tamburi che dialogano tra loro – persino i tamburi se si vuole dialogano – questa è l’Italia che mi piace, l’Europa, il mondo che mi piacciono. Tredici anni di Campusinfesta. All’università. Quella di Salerno e per un paio d’anni anche quella di Roma 3. E con un’espansione nella città, Salerno, attraverso “Salerno creativa”, e un'incursione persino a Giffoni Valle Piana, nel mitico festival di quella cittadina.
Portare una festa contadina dentro l’università, questa era l’intenzione di Campusinfesta. Con i suoi protagonisti, le sue forme, il suo mondo. Per studiarla e per viverla insieme. Esattamente come fanno gli antropologi quando vanno a studiare in un luogo: “osservano” e “partecipano”. Si mangiava e beveva. Gratis. E si dormiva gratis, per quelli che affluivano da fuori sede. E venivano musicisti e danzatori e clown pure, poiché nelle feste popolari c’era spesso una figura di sovversione simbolica, il trickster degli studi antropologici: il clown, appunto.
C’erano contadini, artigiani, operai che venivano a cantare e danzare i loro suoni. E c’erano studenti che avevano imparato dai primi a suonare e cantare al modo loro. Poi vennero anche musicisti “etnici”, africani, arabi, slavi, latinoamericani. Ognuno portava il suo e trovava il resto. Negli ultimi anni venivano anche pezzi di feste popolari: i Gigli di Nola, l’Obelisco di Fontanarosa, il fucarone di Tolve, una paranza della Madonna dell’Arco, il Ciuccio di fuoco di Mercato S.Severino.
Ma era l’atmosfera che si creava che era qualcosa di speciale. Né integralmente contadina né dichiaratamente universitaria, una terra di mezzo nuova che si creava tra le migliaia di persone che affluivano. Un’atmosfera speciale che ti faceva pensare e dire “ce la possiamo fare” (un “we can” prima di Obama). Fare cosa? niente di preciso, niente di già prefigurato, un sentore di possibilità, di profumo di utopia. Un afrodisiaco dell’anima. Ciò di cui c’è bisogno oggi.