Antropologo a domicilio n°53 (27.8.2019)

Infine usciamo dalle vacanze. Ciascuno con il suo bagaglio di intimità. Magari fastidiose, per le spiagge trasformate in carnai umani. O dolci, per le serate passate con gli amici a chiacchierare e ridere. Ed erotiche, per la febbre che il mare o la montagna suscitano in corpi sopiti in inverni lavorativi. O affettive per l’improvviso e dimenticato piacere degli occhi negli occhi, dei sorrisi a sorrisi. Usciamo dalle vacanze con l’esperienza dell’intimità e già pronti a dimenticarla nelle prossime e immediate restaurazioni delle distanze, delle freddezze, dei ruoli. Ma in questo intervallo tra intimità e dimenticanza che solo i giorni immediatamente seguenti alle vacanze producono, è giusto fare una riflessione sul nostro stile di vita. Iperindividualizzato, quand’anche sembri ipersocializzato dai “social”.
In un paese del Sud ho visto una bambina passare di braccia in braccia, la mamma, il padre, lo zio, la zia, la nonna, mentre guardava e ascoltava gli zampognari della sua famiglia che si alternavano ai suoni e ai balli. Passava di braccia in braccia ed era incantata all’ascolto. Alla visione. Un paese del Sud. Si imprimerà nella matrice profonda del suo organismo questa esperienza di braccia e di suoni, insieme a tutte le esperienze come questa. In cui le persone che l’amavano l’accoglievano nella danza dei loro cuori che battevano di emozioni dei suoni e dei balli. Per lei il mondo vero, quali che saranno poi le sue esperienze future, il mondo vero sarà quello della memoria dell’intimità dei corpi di una comunità che cercava se stessa, e spesso si ritrovava, nei suoni e nei corpi che si accordavano ai suoni condivisi. Corpi intimi. Di cui il suo corpo, quello di bambina in braccio agli adulti, stava imparando a fare parte. E che cercherà di riprodurre per sempre nel resto della sua vita. Spesso invano.
Io penso che abbiamo liquidato con troppa fretta e superficialità l’esperienza dell’intimità comunitaria (corpi che si toccano, sguardi e sorrisi, suoni, corpi che si muovono a tempo) relegandola nel dimenticatoio dell’arcaico. Io penso che l’ansia della modernizzazione (pur decisiva per l’aumento demografico e per la lunghezza della vita) ci abbia fatto dimenticare che la qualità della vita non si misura. Perché non ci sono quantità nella “qualità”. C’è l’ineffabile dell’esperienza di essere parte di un tutto umano e sociale. Solo pochi giorni all’anno noi avvertiamo una sorta di nostalgia per un mondo che non c’è più. E che forse non c’è mai stato. O che non abbiamo mai vissuto veramente. Ma questa nostalgia va accolta e curata, non abbandonata e dimenticata come un futile momento di passaggio. Anche se è nostalgia di niente, essa viene dalla radice umana, che ci precede come singoli e ci supererà. Ed è il segnale proprio che riceviamo dalla nostra umanità. Quella condivisa come specie. Che è sociale, persino comunitaria, non privata, peggio privatistica. Non “privata” del senso di prossimità dell’altro. Anzi proprio su questo senso costruita. Prossimità dell’altro, e talvolta intimità, non estraneità e lontananza.
E che oggi, nel pianeta degradato e degradante — per l’ambiente e per l’umano in esso — significa la prossimità di ogni essere umano. Quanto ridicola è a questo proposito l’interpretazione che qualcuno dà del “prossimo” cristiano come il vicino culturale, l’uguale a sé, il familiare; ignorando del tutto la vertigine della “prossimità” universale che è propria del messaggio evangelico, di un Dio che peraltro muore per l’intera umanità e non per i suoi familiari. O per un popolo prima degli altri. E quanto è cieca tale interpretazione in una fase della storia in cui la prossimità ormai si estende all’intero pianeta, che non più essere oggetto di sfruttamento e depredazione, ma soggetto di equilibrio (o disequilibrio) che riguarda l’intera sfera della vita sul pianeta. Anche animale, anche vegetale.
Quella bambina che passava di braccia in braccia viveva l’esperienza più intimamente e universalmente umana e vitale che si possa provare nel ciclo di un’esistenza. Se riusciamo a non ignorarla, non dimenticarla, non irriderla, ma al contrario a contemplarla e persino a cercare di riprodurla nella nostra personale esperienza di vita, forse c’è ancora speranza su questo pianeta.
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