
Antropologo a domicilio n°37 (3.5.2018)
Alfie Evans era un bambino inglese di due anni affetto da una patologia neurodegenerativa rarissima, sconosciuta e incurabile. Per parecchi mesi della sua breve vita è stato al centro di una vertenza medico-legale che divideva i genitori (che volevano continuasse a vivere) e i medici e il tribunale (che volevano cessassero le cure palliative per tenerlo in vita, nell’interesse stesso del bambino, cieco, sordo, con risposte dolorose a stimoli dall’esterno, compresi quelli tattili (dunque baci e carezze), e che non respirava da solo ed aveva bisogno di una macchina del farlo).
Questo caso ha avuto enorme eco nei media internazionali. Se ne è interessato anche papa Francesco, disposto al ricovero nell’ospedale del Bambin Gesù a Roma, su richiesta dei genitori, cattolici. Ma soprattutto è diventato un caso politico e diplomatico. Che se ne sia interessato il papa si può capire. Un fermo impegno etico e spirituale nei confronti della vita è tra i suoi compiti. Che se ne siano interessati i politici mi fa riflettere. Non tanto su di loro, che fanno — piuttosto male, direi — il loro mestiere di acchiappa voti, quanto su di noi che siamo disposti a dare il voto in cambio di questo tipo di impegno politico.
C’è una sofferenza quotidiana di alcune decine di migliaia di bambini in Italia: per esempio quelli che hanno bisogno di sostegno scolastico e per ragioni burocratiche o di budget o di differenze regionali non lo ricevono o lo ricevono in modi inadeguati; per esempio nelle strutture ospedaliere pediatriche che non sono adeguate dappertutto e a volte sono francamente carenti; per esempio nei quartieri periferici delle città in cui spesso sono del tutto assenti luoghi, strutture, associazioni che si occupino di bambini, costretti a rimediare alle loro aspettative di socialità con il surrogato dei social media (che spesso sono per loro solo la scelta obbligata, non la prima scelta); per esempio nei confronti dei bambini nati in Italia e figli di cittadini stranieri, cui viene negata la cittadinanza. Potrei continuare. Per esempio con le notizie che vengono dalla Turchia, dove i medici (turchi) hanno rilevato che il 60% dei bambini siriani profughi che vivono in quel paese soffre di disturbi mentali per le durissime condizioni di esistenza. Parliamo di un milione e mezzo di casi. Tra i disturbi che preoccupano maggiormente vi sono depressione, sindrome di abbandono e stress post traumatico.
Alfie Evans era un bambino, e come tutti aveva diritto al miglior trattamento possibile e al rispetto della sua stessa vita. Ma come tutti. Non in forma speciale (tra l’altro, ha ricevuto la cittadinanza italiana - quasi fosse vittima di maltrattamenti nel suo paese - negata a migliaia di altri bambini). La politica dovrebbe occuparsi di tutti, non di qualcuno in forma speciale per il fatto che fornisce pretesto per battaglie ideologiche. Peraltro non in nome delle “idee”, bensì degli orientamenti di voto.
C’è però un altro aspetto della questione che merita attenzione. Se i politici si buttano in un caso del genere non è per le “idee” — che sono in genere disposti a barattare abbastanza rapidamente per i loro obiettivi di piccolo cabotaggio — ma per il consenso che credono di trovare tra gli elettori. Ciò significa che il politico che ha fiuto e che si lancia in una campagna del genere sa che vi sono moltissime persone sensibili al tema. La domanda è: come si può essere sensibili alla sorte di un bambino già purtroppo condannato e trascurare quelle di centinaia di migliaia — milioni se appunto chiamo in causa i bambini vittime delle guerre, quelli nei campi di “accoglienza” dei profughi, le vittime di tratta, di prostituzione minorile e così via — per i quali invece si potrebbe intervenire? Si dirà: il potere dei media, che rendono forte un caso debole e deboli i moltissimi casi forti. Ma questa risposta non mi è più sufficiente. Perché i fruitori dei media che si fanno catturare da casi come quello di Alfie Evans potrebbero fare le banalissime riflessioni che qui ho fatto. Io penso che vi sia dell’altro.
Un filosofo e antropologo francese morto nel 2015, René Girard, aveva introdotto il tema dell’attrazione mimetica. Troppo complessa la sua teoria perché possa provare qui a riassumerla. Basterà a mo’ di slogan richiamare un’idea centrale: siamo animali mimetici, cioè ci imitiamo reciprocamente. E sentiamo anche mimeticamente. E pensiamo. Desideriamo ciò che desiderano gli altri, e ce ne sbarazziamo quando gli altri se ne sbarazzano. In questo modo partecipiamo al gruppo di appartenenza. Facciamo società, comunità. È un meccanismo dal quale sembra impossibile star fuori. Secondo Girard.
Certo. Però.
Però conoscere l’esistenza di questo meccanismo potrebbe servire a liberarci di tanto in tanto dall’ossessione mimetica. A imparare a farlo (e già dalla scuola). Usando… niente di eccezionale: i vecchi meccanismi riflessivi della filosofia, perché no. O di qualunque altro meccanismo riflessivo che ci faccia pensare (magari insieme agli altri). E una volta tanto non mimeticamente.
Anche se questo oggi sembra un sogno.