
Due anni fa al Festival del cinema di Venezia il premio al miglior documentario andò a “Thank You Very Much”, che il regista Alex Braverman aveva dedicato al comico americano Andy Kaufman, morto quarant’anni fa. Il New York Times ha pubblicato in questi giorni un lungo articolo di recensione di Jonah Weiner, che richiama il modello di comicità di Kaufman, cioè del “comico che ha anticipato il nostro mondo distorto dalla realtà”.
Un passaggio dell’articolo di Jonah Weiner mi ha particolarmente colpito: “Il suo grande tema era la malleabilità del nostro senso condiviso di verità e in questi giorni sembra che stiamo assistendo all'obliterazione totale della realtà consensuale. Non ci fidiamo delle notizie, non siamo sicuri che le immagini e i video che vediamo siano di intelligenza artificiale, non sappiamo se le persone che incontriamo online stanno trollando o "facendo performance". Molti di noi hanno la sensazione di essere coinvolti in performance che, grazie all'onnipresenza strisciante dei social media, non finiscono mai. In altre parole, le cose non sono mai sembrate più kaufmaniane…c'è questo sospetto costante ora se qualcosa è reale o falso".
In un certo senso è come se vivessimo in uno stato di liminalità permanente. Liminalità è un termine della letteratura antropologica con cui si indica la fase centrate di un rituale di iniziazione. La parola viene da “limen”, che in latino era la “soglia”. Stare sulla soglia equivale a uno stare né dentro né fuori, in un passaggio (appunto sulla soglia). Non si sta dove si stava prima, non si sta dove si starà dopo. Oppure: non si è ciò che si era prima, non si è ciò che si sarà dopo.
Nel rituale dell’iniziazione la liminalità è una fase transitoria, nella nostra attuale vita comune è permanente.
La nostra liminalità si chiama incertezza. Ciò che davamo per scontato fosse la realtà, la nostra abituale idea di mondo, vacilla quotidianamente.
Basta un qualunque notiziario a metterci in difficoltà: ma chi si arma vuole la pace o sotto sotto lavora per la guerra (vedi l’Europa)? Cosa esattamente dice Trump ammesso che non dica contemporaneamente una cosa e il suo contrario? Si può essere al tempo stesso vittima e carnefice (vedi Palestina)? Essere “cattivi” è l’unico modo per essere “buoni” in questo mondo (fermiamo i traffici di esseri umani)?
Se poi chiudiamo i notiziari e guardiamo altro, per esempio i social, ci chiediamo: ma chi c’è dietro un profilo social, un essere umano o la sua finzione di essere umano? Che sommata alla mia stessa finzione di essere me stesso nei social sarebbe una moltiplicazioni all’infinito di finzioni sempre più lontane da noi essere umani concreti?
Allora ci rivolgiamo direttamente alle finzioni, cioè agli spettacoli, ai film, alle serie. Che sono finzioni dichiarate e che però oggi in un mondo sempre più finto sembrano acquistare una forza di “realtà” inaspettata. E dunque scopriamo che, per esempio, una serie come “Adolescence” diventa per molti come una specie di finestra aperta sugli adolescenti reali. Che non sappiamo più dove siano finiti.
Mi fermo. Perché mi viene il dubbio che le mie domande siano in realtà risposte camuffate di altre domande nascoste. (Dice di Kaufman l’attore Josh Safdie: “Vedeva quella confusione della realtà come un risveglio spirituale…Per lui, la vita e Dio esistevano in una specie di spazio intermedio, quasi liminale nella mente, dove ti chiedi, tipo, 'Dove sono?'")
Stiamo davvero vivendo in un imbarazzante mondo kaufmaniano?