Antropologo a domicilio n°29 (6.11.2017)

Vuoi vestirti come Anna Frank? Puoi farlo. Il vestito ti costerà 37 euro, i calzerotti 39, le scarpe 30, l’orologio identico al suo nella foto più famosa 60 euro, la copia del ciondolo che le regalò Peter, “il suo vero amore”, sta a 28. Puoi anche vestire come la mamma di Anna o la sorella Margot, a tua disposizione c’è tutto un vintage anni ’30 e ’40, che è davvero a buon mercato, e sai, “il vintage è PROPRIO Anna Frank.
Tutto questo lo trovi su PopSugar o su Polymore. Sono marchi di media globali che dall’Alaska all’Australia, dall’Europa al Giappone permettono a chi entra nei loro portali di proporre vendite e fare acquisti. Vengono proposte anche linee di moda, e Anna Frank ne ispira più di una. Vintage.
“Oggi ho creato un look “Anne Frank”, di vintage moderno che unisce le influenze di moda dei primi anni 40 con il fascino di quest’anno, 2009. La linea è formale e femminile, ma comoda. Uno spruzzo di Chanel n.5 o Air du Temps e sei pronta ad andare: il vintage è PROPRIO Anna Frank”. Questo è Kazowie, su PopSugar. Il suo set “Anne Frank” prevede un vestito, un impermeabile, un cappellino, un orologio, un paio di scarpe, un ciondolo, tutti modellati a partire dalla foto di Anna Frank. “Oh! io voglio avere subito tutta intera questa linea!”, scrive Sally Cespedes, appena lo vede sul portale.
C’è stata molta indignazione in Italia, per gli ultras della Lazio che hanno picchiettato gli spalti dello stadio di adesivi con un fotomontaggio di Anna Frank con la maglietta della Roma. Non riduco la portata dell’affronto, però voglio “decentrare” la questione. Metterla in un contesto in cui essa continui ad apparire offesa alla memoria di Anna Frank, ma senza dare l’impressione di spuntare da un vuoto assoluto o da menti bacate che guardano il calcio nelle curve degli stadi.
Quando una memoria diventa istituzionale, cioè esprime una visione del mondo “egemone” o “ufficiale”, non ci si può meravigliare che qualcuno usi quella memoria in senso dissacrante, o semplicemente diverso. Generalmente si risponde a questo uso non ortodosso con indignazione e scandalo, che sono le guardie armate dei simboli egemoni, e che li tengono al sicuro da alterazione, rovesciamento, corrosione irrimediabili. Anna Frank continuerà a essere uno dei più potenti simboli della memoria della Shoah, nonostante gli adesivi degli ultras laziali. L’uso dissacrante che ne è stato fatto ha indignato l’opinione pubblica e dunque ha allertato le difese.
Ciò vale anche per i costumi di Anna Frank che si vendono per la notte di Halloween (talvolta appaiati con quelli di Hitler). Una pioggia di proteste quest’anno ha bloccato la presenza sui siti dei prestigiosi Amazon, Wholesale, E-Bay e qualche altro, di un costume di Anna per ragazze che si trovava a poco più di 20 dollari. È rimasto, in circolazioni mediatiche più periferiche. Ancora una volta scandalo e indignazione hanno salvato la memoria istituzionale di Anna Frank. E hanno coperto di discredito gli usi dissacranti (che però continuano. Quest’anno per Halloween gli abiti ispirati al nazismo sono stati molto presenti. Alla stazione della metropolitana di New York è stato fotografato un uomo in divisa di SS con un bambino nel carrozzino vestito da internato di un lager. Ma questo è un altro discorso).
Nel conflitto di interpretazioni intorno a tale simbolo — “sacro” per la maggioranza, meritevole di dissacrazione per minoranze — non ci sono grandi pericoli per quella memoria. Ripeto perché: scandalo e indignazione sono guardie armate molto efficaci. Il vero pericolo è altrove.
Il vero pericolo è nella commercializzazione del simbolo di Anna Frank. Qui non ci sono guardie armate, nessuna indignazione, nessuno scandalo. È “normale”. Perchè è diventato normale che un simbolo diventi merce e possa essere compravenduto. Michelle Zoie, che nel 2014 ha lanciato su Polymore un set di abiti e gadget ispirati ad Anna, scrive in proposito: “ho fatto questa linea in memoria di una vita persa in un evento orribile. Una vita che aveva tanto avanti a sé. Una vittima dell’Olocausto troppo giovane. Lo faccio anche in memoria di tutte le altre vittime che sono morte durante questo terribile avvenimento”. Normale. Comprate i miei vestiti. Celebrerete la sua memoria e quella di tutte le vittime. Normale. Ci siamo talmente abituati alla commercializzazione dei simboli anche i più cari, che non ci accorgiamo neppure del cancro che si annida dentro.
Tra quelli che si sono — giustamente — scandalizzati per la beffa degli ultras laziali, quanti si indignerebbero per una vendita, per esempio, di un diario scolastico che imiti quello famoso di Anna Frank? Cosa c’è di male in fondo?
Bene. Allora chiediamoci: perché uno/a vorrebbe scrivere su un diario di tal genere? E perché una ragazza o una donna vorrebbero indossare un vestito come quello di Anna o infilarsi un paio di scarpe o mettersi al polso un orologio? Nel dibattito che ha infuriato sul costume di Halloween ispirato ad Anna Frank, qualche giorno fa un papà americano su Twitter disapprovava che quel costume fosse stato censurato, perché, scriveva: mio figlio vuole indossare il costume di Batman non perché lo odia, ma perché lo ammira e vuole essere lui. Cioè, implicitamente diceva: mio figlio vuole fare l’”esperienza” di essere Batman, dunque perché non poter fare l’”esperienza” di essere Anna? Ecco la chiave: la voglia di fare l’”esperienza”, di essere “loro”. Anna come Batman. Perché mai una ragazza non potrebbe fare l’”esperienza” di essere Anna almeno una volta, sia pure ad Halloween? Questa considerazione del papà del bambino che vuole essere Batman ci illumina su molte cose della nostra vita presente. Del suo processo di infantilizzazione. Che è connesso a quello di mercificazione generalizzata. Seguitemi su “Travelin Oma”.
“Travelin Oma” è un blog di una pensionata americana, che è stata viaggiatrice accanita, ora si gode la famiglia, marito, 7 figli, 21 nipoti sparsi un po’ dovunque. Un giorno, nel 2010, le capita di vedere un film su Anna Frank. Commossa, scrive sul suo blog. Racconta la sua emozione, poi ripercorre velocemente la vicenda di Anna e mette alcune fotografie. Infine conclude con una proposta ai suoi lettori per diffondere l’emozione intorno a quella figura. “Organizzate un pigiama party”, dice loro. Sì, un pigiama party: se qualcuno si addormenta — dice con ironia — va bene lo stesso. L’ambiente deve essere piccolo, la sensazione che devono provare i partecipanti è di stare in una stanza affollata. Come Anna e gli altri che rimasero nascosti due anni in un piccolo rifugio sovraffollato. I partecipanti otto. Solo otto devono essere, non uno in più non uno in meno. Perché otto erano le persone nel rifugio di Anna. È un party, dunque bisogna mangiare. Ma rigorosamente solo patate al forno e insalata di cavoli, perché è solo questo che mangiarono Anna e gli altri. Per dessert però si potranno servire fragole, perché quei reclusi una volta riuscirono a mangiare fragole. Ognuno dei partecipanti dovrà portare un sacco a pelo o anche una grande trapunta. E una copia del “Diario di Anna Frank”. Quando tutti si saranno comodamente sistemati, e quando si saranno rifocillati con patate, cavolo e fragole per dessert, si passerà a un gioco di società. Opportuno per la memoria che deve suscitare. Ne conosciamo una variante in Italia: è quello in cui i partecipanti sono seduti in cerchio e di volta in volta uno viene escluso e per questo paga pegno. Dunque si gioca. Quando si è stufi (o forse quando ciascuno è andato “sotto” almeno una volta), l’organizzatrice, o chi per lei, deve raccontare la storia di come i nazisti escludevano gli ebrei (beninteso: stando attenti a non terrorizzare i bambini presenti). Senza trascurare però ogni tanto di far riferimento a cose divertenti, così, per “umanizzare” un po’ l’atmosfera, tipo cosa mangiavano nel rifugio — e giù risate, perché ora nel party le stesse cose le hanno mangiato pure i partecipanti; ma anche pensieri tristi magari, rievocando quei periodi bui, dipende, ma non è questo il punto — e cosa successe quando nel rifugio si perse il gatto — e ciascuno potrà magari raccontare cosa è successo al cane o al gatto di casa. O anche no — e via di questo passo. Alla fine, bisogna fare delle domande. Affinché ciascuno venga individualmente coinvolto in termini emozionali, bisogna rivolgere delle domande a ciascuno dei partecipanti. Chi conduce la serata chiederà: “che cosa avresti fatto se dovevi condividere la tua stanza con dei vecchi?”, “ ti avrebbero infastidito i tuoi genitori, i tuoi fratelli, se non avessi mai potuto vedere qualcun altro?”, “cosa avresti sentito se non potevi uscire per due anni?”, eccetera. Sarà passata un’ora? di più? di meno? È arrivato finalmente il momento di guardare film. O magari solo uno spezzone, dipende da che ora s’è fatta. Attenzione amiche, amici: non dimenticate di distribuire prima popcorn. Se il film prende, il personaggio cattura, via Internet si può comprare una copia del vestito che Millie Perkins indossò nel film su Anna Frank del 1959 o di quello con Natalie Portman del 1997, o di quello con Ellie Kendrick nella serie delle BBC del 2009. O altri ancora.
Che diavolo propone “Travelin Oma” ai suoi lettori? Che diavolo c’entra questo pigiama party con la memoria di Anna Frank e in generale della Shoah?
Se sei stato al pigiama party hai fatto un’”esperienza”. Ecco il punto, fare l’”esperienza”. Sei stato in qualche modo anche tu nel rifugio di Amsterdam, anche tu hai sofferto il disagio dell’affollamento, e sai cos’è l’esclusione, infatti sei stato escluso dal cerchio in un turno del gioco, e hai mangiato esattamente ciò che mangiava Anna Frank, hai visto il film, ti sei commosso, ti sei chiesto che avresti fatto al posto suo dentro un rifugio per due anni, convivendo con dei vecchi insopportabili, tra corpi troppo ravvicinati, come nella stanza del pigiama party, ecco. Insomma hai fatto “l’esperienza” di Anna, e perciò della Shoah.
Dunque, benvenuto nel “mondo Disney”, ci sei entrato.
Nel mondo Disney si può fare l’”esperienza” di tutto. L’universo intero è diventato un’esposizione Disney: entra e avrai l’”esperienza” di qualunque cosa tu voglia. Perché l’universo intero si è trasformato in merce, l’universo intero si può comprare e vendere. E Disneyland ne rappresenta la sua attuale metafora più felice.
Disneyland ha bisogno di sentimentalismo, molto sentimentalismo. A Disneyland si possono versare lacrime per il finto agnellino orfano, e tranquillamente ignorare la strage degli agnellini veri a Pasqua. Al sentimentalismo Disney — quello dell’”esperienza” — non interessa davvero la persona, basta che si faccia l’”esperienza” di quella persona. Ma il sentimentalismo non è empatia. Perché l’empatia non è confondere la propria emozione con quella della persona con cui si empatizza. C’è una chiara distinzione nell’empatia: questo è il “tuo” dolore, non il mio. Capisco, sento l’eco del tuo dolore, che risuona in me, ma rimane il tuo. È per questo che vi partecipo. E cerco di venirti incontro. Se una mamma non riuscisse a fare questa distinzione, pensate che provvederebbe alla febbre che è venuta al suo piccolo? o non si metterebbe a letto anche lei per fare l’”esperienza” del figlio? se mimasse il disagio del figlio, potrebbe aiutarlo? Nel mondo Disney invece no: io devo essere te, Anna, fare l’esperienza di essere te, aggiungere anche questa esperienza, questo “scalpo” alla galleria di “esperienze” della mia vita (per riempirne magari il vuoto). Ognuno si sceglie i suoi simboli, compra i suoi safari di “esperienza”: Anna Frank o Batman che ne so, o anche tutti, uno dopo l’altro. Basta avere soldi per farlo. Tutto ben pagato e ben speso. Si potranno versare lacrime se si desidera. Al pigiama party su Anna Frank si va anche per piangere, non certo per ridere (se ci scappano risate è perché “si sta così bene insieme, no?”). Lacrime di puro sentimentalismo. In cui è scomparso ogni sentimento.
Nel mondo Disney che è diventato il nostro mondo, il simbolo Anna Frank è capace di produrre un notevole indotto commerciale, esso stesso è diventato merce. Fare l’”esperienza” di essere Anna Frank è diventata una merce (è chiaro che il discorso si può allargare a tutto. Vuoi vedere dove è apparsa la Madonna, vuoi parlare con quelli che l’hanno vista? Eccoti accontentato: “se stai cercando dei viaggi organizzati per un pellegrinaggio a Medjugorje, entra ora nel sito XXXX e scopri le offerte per un Viaggio a Medjugorje”. Oppure, sei a Rio de Janeiro? “Se rimani a Rio qualche giorno è impensabile lasciare la città senza aver prima conosciuto da vicino una delle numerose favelas”. Ma forse sei a Mumbai o a Johannesburg o a Città del Messico? Il turismo degli slums offre ciò che vuoi dove vuoi. E via di questo passo.).
Siamo diventati clienti di un gigantesco mercato globale che ormai comprende tutto. Tutto l’universo intero. Trasformato in prodotti e venduto nel supermercato globale. Non c’è più nulla che ne rimanga fuori. Ben più che Anna Frank, alla fine dei conti: Dio, la vita biologica, la tua stessa identità, tutto dentro questo mercato. Tutto, qualunque cosa tu voglia, può essere comprato o venduto. E se neppure sai cosa vuoi, entra nel “sito”, cerca pure e troverai ciò che neppure sapevi di cercare. Avevi mai pensato che potevi vestire come Anna Frank? che potevi portare il suo orologio, potevi scrivere il tuo diario sul suo? Puoi tutto, tu puoi tutto. Ops! Per caso ti ha stufato Anna Frank? Nessun problema: c’è un campionario di meraviglie che aspetta solo te. Finalmente il trionfo del capitalismo avanzato. Tutto tutto tutto è diventato merce. Ma guarda: il vecchio Marx!
L’affronto maggiore ad Anna Frank non sta nell’azione stupida e scellerata degli ultras laziali. Perché da quella ci difende l’indignazione. L’affronto maggiore è nel risucchio che è toccato anche a lei e alle vittime della Shoah. Il risucchio della mercificazione. Ma questo risucchio ha tirato dentro l’universo intero. E allora l’affronto non è solo ad Anna Frank, ma alla nostra umanità. Però a questo affronto partecipiamo ormai tutti.
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