Antropologo a domicilio n°102 (23.9.2024)
“Cara me che sei sola ti do gli auguri per questo giorno.
Auguri a me, alla mia vita, al mio percorso sempre
          più sola ma sempre con più forza. Buon compleanno!!!”.

                                  “Auguri a me, che riesco sempre a piantare nella mia anima
                                   il sole, che faccio battere il mio cuore per lo stupore della vita,
                                                           che vivo in me il benessere”.

                                  “Oggi che è il mio onomastico esprimo a chi mi conosce la
                                               stima che ho verso me stesso. Auguri a me”.

Sono tre esempi di auto-auguri che ho tratto da un numero consistente che circola sui social. Sono apparentemente affermazioni di resilienza. Ma io ci leggo altro: espressioni di solitudine. Saranno anche nella dimensione della resilienza, ma per me questi messaggi denunciano solitudine.
E i social sono la Croce rossa della solitudine. Perché l’immensa solitudine dei nostri tempi trova conforto – certo, non soluzione – nei social.

E c’è dell’altro.
Questi auguri si accompagnano a selfie. Cioè la persona che dà gli auguri a se stessa, poi si fotografa. E il giorno della sua festa si mette in scena. Sui social.
E vi sarà almeno una persona che la guarderà e applaudirà: se stessa.
Cosa c’è di più forte espressione di solitudine che farsi spettatore di se stessi? Nei primi mesi e anni di vita il bambino/la bambina si mette in scena davanti alla mamma, al papà. Lei/lui ha bisogno di quel piccolo privato pubblico familiare per entrare poi nella scena più complicata del mondo intero, man mano che crescerà. E per tutta la vita sarà mosso dallo stesso desiderio di riconoscimento: “eccomi, sono qui, sono io, non ignoratemi, riconoscetemi”. E parlerà, si racconterà, si acconcerà per presentarsi in società: “eccomi, sono io, riconoscetemi”. Si metterà in scena davanti agli altri.
Perché è lo sguardo dell’altro che conferma il sé.

E allora diventare spettatori di se stessi segna un drammatico autoinganno: fingere che il proprio sguardo di riconoscimento e approvazione sia lo sguardo degli altri.
È per questo che spesso la solitudine si fa depressione, poiché non è così facile e sempre possibile credere nella propria finzione.
E qui interviene la Croce rossa. I social. Mettersi in scena in un luogo comunque “pubblico”, sia pure in un’operazione solitaria, dà l’illusione di essere in compagnia degli altri. È un’illusione anche questa, come la prima, ma è più efficace.
Un’illusione peraltro rafforzata dal fatto che questi auto-auguri talvolta sono seguiti da like e da commenti, anche numerosi.
Eppure – almeno nel campione che ho seguito (non molti, una decina in tutto) - quasi nessuno di coloro che commentano, sembra notare la denuncia di solitudine nel messaggio (“sempre più sola”, dichiara il primo di quelli da me citati). Ci si limita alla esclamazione: auguri!
Confermando in questo modo la solitudine espressa nel messaggio di auto-auguri, perché non “ascoltare” la voce di chi dice “sono solo” è la prova più evidente che davvero chi lo dice è solo.
I social non sono il diavolo. Anzi: sono la Croce rossa della solitudine. Il dubbio che però mi viene è che la sua ambulanza non porti all’ospedale della cura, perché poi perde la strada e vaga senza meta.
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