
Antropologo a domicilio n°97 (1.4.2024)
Quando parliamo, non ci limitiamo a descrivere la realtà, ma la facciamo.
Prendiamo la parola “cattiveria”. Se si ascolta la telecronaca di una partita di calcio, si sentirà continuamente questa parola per definire l’atteggiamento giusto del calciatore nel contatto con l’avversario.
Paradossalmente, il buon calciatore è quello cattivo con l’avversario.
Cattiveria dunque non solo ha esteso il suo uso, ma ha anche spento il significato di bontà.
Guardiamo i ragazzi che giocano tra loro nel campetto: quale termine useranno per incoraggiarsi reciprocamente? E cosa diranno loro gli allenatori, e i miopi genitori?
Possiamo pensare che poi quando smettono di giocare, “cattiveria” scompare dal loro vocabolario? e soprattutto dalla loro mente? Che la metafora non rimane là pronta a essere usata altrove nella loro vita?
Anche le immagini non si limitano a riflettere la realtà, ma la fanno.
Trent’anni fa Tony Blair, politico allora vincente, si presentava con un sorriso. Guardate ora Trump, che fa da modello a molti altri nel mondo
E nei media, nelle tv? I “vincenti” delle propagande mediatiche sono polemici, aggressivi, tendenzialmente violenti (modello Sgarbi).
Questi modelli non si fermano sugli schermi Tv. Ci influenzano profondamente, senza che ce ne accorgiamo. Inconsapevolmente li imitiamo, a cominciare dai nostri volti. E atteggiare il volto in un certo modo, spesso produce l’emozione corrispondente. Lo sanno bene gli studiosi delle emozioni. E forse meglio le attrici, gli attori.
Parole che si espandono e immagini che influenzano: la cattiveria diventa il nostro ambiente simbolico condiviso, e si trasferisce nel nostro mondo interiore.
E allora sempre di più incontriamo persone che si presentano modalità Trump. Anche se sono solo maschere che indossano, anche se spesso lo fanno per difendersi, guardandole, ci aspettiamo da loro comportamenti canaglieschi. E questa aspettativa si conferma da sola: poiché mi aspetto che gli altri siano canaglie nei miei confronti, sarò canaglia per primo con loro (e gli altri se non lo erano, lo saranno).
Dobbiamo rassegnarci all’imperialismo dei linguaggi della cattiveria? a guardare il mondo solo dalla loro prospettiva?
E se provassimo a guardarlo anche da altre prospettive, con altre parole (e immagini)?
“Benevolenza” per esempio, parola che sembra ormai irrimediabilmente fuori uso.
La benevolenza si muove se c’è volontà-di-bene, diceva Cicerone (voluntate benefica benevolentia movetur). Io non credo che questa volontà sia totalmente venuta meno nelle nostre vite. L’atteggiamento generale è ispirato dalla volontà di bene: di sé, degli intimi, degli amici, infine della società. Il fatto è che nei nostri incontri sociali, sotto il peso di una specie di pregiudizio canagliesco, non riconosciamo più una tale volontà negli altri. È un pregiudizio che certo anche da esperienze negative. Ma io dico soprattutto dalla potenza delle metafore verbali e visive della cattiveria, che sono onnipresenti. Queste potenti metafore occupano la nostra mente: le immagini che ci richiamano, le parole che ci suggeriscono, saranno le prime a venirci in soccorso, per esempio quando dobbiamo decifrare il volto o l’atteggiamento di qualcuno. Eccolo davanti a noi: ci guarda con indifferenza? A noi sembrerà malevolenza. O peggio: sembra benevolente? E no, sicuramente è una messinscena.
Insomma la “cattiveria” e i suoi simili hanno forgiato una specie di cappa nebbiosa che ci impedisce di scorgere il cielo della benevolenza degli altri e dunque esercitare la nostra stessa.
Eppure la benevolenza è un bene necessario nel mondo sociale, ed esercitare la volontà di bene è un beneficio che diamo a noi stessi, prima che agli altri. Ma per farlo dobbiamo superare il pregiudizio canagliesco che ci blocca. Forse quando incontriamo gli altri dovremmo fare una sosta riflessiva, respirare e contare fino a cinque, e poi decidere: se voglio il bene, devo esercitare la benevolenza.
La nostra personale benevolenza non eliminerà il male dalla terra, l’egoismo, la malvagità, la violenza, l’odio, no, di certo non li eliminerà, ma almeno non aggiungerà anche il nostro contributo al resto. La benevolenza è un piccolo gesto di riequilibrio del mondo.