
Antropologo a domicilio n°44 (5.12.2018)
La newsletter dell’antropologo a domicilio numero 44 è dedicata a Campusinfesta. Una festa che si teneva all’università di Salerno e che coinvolgeva migliaia di persone, tra studenti, personale universitario e abitanti della zona. Gli studenti erano in larga parte dell’università salernitana, ma un folto numero veniva da altre università italiane, Roma soprattutto, ma anche Milano, Firenze, Bologna, Cosenza, Bari. Nacque quasi per gioco nel 1995 come una piccola sfida teorica e organizzativa tra me e gli studenti nel corso di antropologia culturale, ma finì per diventare per tredici anni l’evento della chiusura estiva delle attività didattiche di tutta l’università. Questo video — di Luca Apolito e Manlio Castagna, un po’ maltrattato dalla compressione file— di 20 minuti ricorda Campusinfesta degli anni intorno al 2000. L’ultima edizione fu il 2008, quando mi trasferii all’università di Roma 3. Prima che finisca il decennale dalla sua ultima edizione, voglio ricordare Campusinfesta con questa newsletter.
Tre brevi commenti: idee che ancora mi suscita il ricordo.
La prima. Campusinfesta scommetteva su una didattica che non mirava alla “testa” degli studenti ma al corpo. La conoscenza è un evento del corpo non della testa. Emozioni e passioni insieme a concetti e argomenti: questo è conoscere. La cosiddetta rivolta contro le élites culturali di questi tempi — cioè il disconoscimento diffuso della parola autorevole della scienza, e della figura dello scienziato — viene anche da un certo modo di insegnare disincarnato che ha creato frustrazione, imponendo un apprendimento come fatica e basta, senza nessun’altra gratificazione che l’apprendimento stesso. Dimenticando che non si apprende per apprendere, ma per vivere meglio la propria esperienza umana in mezzo agli altri umani. Altrimenti apprendere non serve a niente.
La seconda. Campusinfesta proponeva una festa “meticcia“, cioè non identitaria. La sfida che oggi l’umanità ha davanti a sé è di rimanere “umana”. Il rischio di fallimento è nell’eccesso di identità (come ricordavo nella precedente newsletter). Che significa festa meticcia? Campusinfesta proponeva le due dimensioni della “musicalità comunicativa” che rendono efficaci e felici le relazioni umane: i “ritmi condivisi” (quando si sta bene insieme la comunicazione è musicale e dà gratificazioni) e 2) la “dimensione mimetica” (cioè dell’imitarsi reciproco: volontario e involontario). Queste due forme che Campusinfesta aveva quasi automaticamente assunto (essendo una festa nata da un corso di antropologia culturale) mi hanno poi fatto riflettere in termini scientifici e spinto a scrivere “Ritmi di festa”, da cui successivamente è nato il monologo dell’antropologo a domicilio (grazie Campusinfesta!). Cerco di sintetizzare (ma meglio sarebbe leggere il mio libro o venirmi a vedere in un monologo — o invitarmi a farlo): condividere quotidianamente ritmi comunicativi efficaci (ritmico-musicali) consente di vivere poi esperienze festive di esaltazione comunitaria. In altre parole, chi vive quotidianamente un’appartenenza positiva ad un gruppo sociale (dalla famiglia al quartiere al paese, ecc.) nella festa avverte esperienze comunicative “musicali” di straordinaria forza emotiva, quasi di “estasi”. Ma da soli i ritmi condivisi creano mondi identitari chiusi in se stessi. Non mi stancherò a questo riguardo di ricordare che il nazismo si fondava su un regime di cerimonie e di feste in cui i tedeschi vivevano esaltazioni emotive di grande forza. Con tutte le conseguenze e gli effetti che il nazismo produsse nel mondo. Occorre dunque altro oltre ai ritmi condivisi, occorre che vi sia un’apertura alla “dimensione mimetica”, che ci caratterizza in quanto umani. In altre parole entrare mimeticamente nei ritmi altrui (cioè di altri gruppi) e lasciar entrare gli altri nei propri. Proprio come fanno i bambini, che in quanto cuccioli degli umani apprendono i ritmi del proprio ambiente (che non sono genetici, ma appunto appresi) attraverso la grande capacità mimetica di cui dispongono naturalmente. Ecco: la festa meticcia è una palestra di mimesi ritmica. E non esagero nel dire che per questo è anche una palestra di pace, di democrazia, di orizzonte di progressiva umanizzazione.
E ciò richiama la terza idea che mi suscita il ricordo di Campusinfesta, la “responsabilità etica verso gli altri”. Può sembrare lontana una festa (meticcia, insisto) da una riflessione sull’etica. E invece non c’è migliore terreno che una festa (riuscita, e non è cosa facile), per imparare ad avvertire la responsabilità verso gli altri (e poi verso il resto della natura vivente). Poiché in essa si sperimenta innanzitutto la compresenza degli altri (una festa solitaria è impossibile) e di conseguenza una necessità di trovare accordi ritmici e mimetici con gli altri (altrimenti si litiga e allora non c’è più festa). Gli altri dunque si “impongono” al sé nella loro varietà, diversità e vitalità singolare. Gli altri ci ricordano incessantemente “io ci sono, io esisto, io vivo proprio come te”. E dunque invitano alla responsabilità verso di loro. Che la festa debba esser meticcia e non identitaria poi, mi pare ovvio: di nuovo il nazismo ci ricorda che in quel caso il senso di responsabilità verso gli altri , ma solo se tedeschi, produsse la Shoah.
Finale “futile” (che, ricordo sempre, è quella dimensione antropologica che aggiunta all’”utile” condiviso con il resto della vita sulla Terra, fa la specificità umana): Campusinfesta invitava a “sorridere” (lo slogan di un anno fu proprio: Campusinfesta è un sorriso). Sorridere è dare senso alla presente relazione con l’altro. È dirsi (e dire): per quanto volatile, veloce, fuggevole questa esperienza di incontro, vale, vale. Vale: è traccia presente dell’intera parabola della mia vita, che ora si dà in questo incontro. Campusinfesta credeva in queste cose — apparentemente affermazioni da life couching, ma di portata ben più rilevante, che non possono essere liquidate con qualche battuta dissacratoria — io ci credevo in queste cose e ci credo tuttora.