

Antropologo a domicilio n°33 (5.2.2018)
Nel 1716, il giardiniere inglese Thomas Fairchild provò a fare un innesto tra il cosiddetto garofano dei poeti e il garofano doppio. Ci riuscì, ne venne fuori un ibrido che gli fece paura, poiché quel successo dell’esperimento sembrò mettere in dubbio l’idea che Dio avesse creato la natura una volta per tutte e che dunque ogni intervento a modificarla fosse peccaminoso. Questa paura non lo abbandonò più, fino alla morte, avvenuta nel 1729, quando lasciò un fondo di 25 sterline affinché in perpetuo venisse pronunciata una particolare omelia “sulle meravigliose opere di Dio nel Creato”: nel caso in cui Dio si fosse sdegnato del suo esperimento, cercava di blandirlo in perpetuo.
Due “scimmiette” clonate. Notizia di questi giorni. Siamo vicini al clone umano. In trecento anno passi giganteschi dalla manipolazione dei fiori a quella della della vita umana. In realtà, la “natura” è sempre stata manipolata dagli esseri umani. Almeno dalle origini dell’agricoltura, che non è altro che manipolazione dei cicli naturali che sarebbero diversi senza l’intervento del contadino. Ernesto De Martino riprendeva una tradizione di studi storico-religiosi che faceva derivare la nascita delle religioni pagane della terra dall’”angoscia” suscitata dal lavoro della falce messoria, cioè da quel tagliare la vita vigorosa della spiga matura per farne farina e pane. Ma già la pastorizia aveva preceduto l’agricoltura. Cosa sono gli animali addomesticati o domestici se non manipolazione della vita animale a vantaggio degli umani?

Queste operazioni tecniche nel cuore della vita hanno sempre avuto una dimensione “drammatica” per gli esseri umani. Tanto da farne materia di religione, di rito, di espiazione di sensi di colpa per essere intervenuti a modificare la vita. Tale dimensione drammatica sembra oggi scomparsa. Eppure siamo vicinissimi a una nuova era - anzi ci siamo già entrati - che lascerà alle spalle quella del controllo agro-pastorale della vita sulla terra: i nostri discendenti la contempleranno come preistoria. Perché la clonazione — e non solo questa — è una frontiera di controllo della vita che non ha più residui: la vita vi è riprodotta come mero oggetto tecnologico tra gli altri. E non c’è solo la clonazione. L’ibridazione tra corpo e macchina per parte sua è già molto avanti. Ne cogliamo quasi inconsapevolmente benefici nelle applicazioni mediche e chirurgiche. E ne viviamo quotidianamente una dimensione che ormai ci travalica quasi completamente, quella dettata dai nostri smartphone e da tutto il resto implicito in essi. Ma siamo ancora agli inizi, molto molto agli inizi.
Eppure non si nota “angoscia” o timore o altra emozione che spinga a una riflessione corale, a un dibattere pubblico, a una esigenza collettiva di scelte consapevoli. La clonazione ha attirato le ormai rituali prese di posizione tra chi sostiene che la scienza debba camminare per la sua strada senza limiti e chi invece chiama in causa un controllo etico e politico. O religioso. Sono discussioni di una élite. Non per questo inutili, tutt’altro, ma comunque marginali, occasionali, proprio come un rito vuoto, celebrato in un dato giorno con dati attori, ma fuori della vita vera degli altri.
Non c’è un pensiero collettivo, una riflessione orizzontale, una presa di coscienza generale sul cammino che ci porta verso una trasformazione antropologica radicale. Non c’è un orientamento delle discussioni verso questi temi. Eppure tutti i giorni noi facciamo un passo verso una nuova costituzione della nostra specie di cui non riconosciamo i contorni, ma che possiamo facilmente intuire ci trasformerà radicalmente.

Forse non ci pensiamo perchè siamo ben più spaventati di Fairchild. L’idea che un giorno io possa trovarmi davanti a un clone di me stesso è così destabilizzante che non ho — nella solitudine del mio pensiero — molti strumenti per difendermene, oltre che magari liquidarla con una battuta: meglio dunque non-pensarci. Allo stesso modo, il fatto che quotidianamente ci allontaniamo dalla cultura alfabetica e scivoliamo in quell’incognito ibrido parola-immagine che sono i social, non occupa le nostre riflessioni, se non per le solite lamentazioni rituali che però non modificano in niente le nostre abitudini quotidiane.
Eppure per migliaia di anni gli esseri umani hanno affrontato pensieri destabilizzanti. Ne hanno fatto occasione di filosofia, teologia, etica, arte, scienza umana. E le forme culturali elaborate per affrontare l’angoscia hanno costruito civiltà, organizzato società, fatto le storie dei popoli. Non furono evitati, quegli oggetti del reale che destabilizzavano, non si fece finta che non esistessero. Certo, hanno dato spesso risposte che oggi non condivideremmo, ma hanno dato risposte. Noi non lo facciamo. O non sufficientemente per la dimensione drammatica dei nostri attuali oggetti destabilizzanti.

E forse ciò è effetto di un’altra trasformazione in atto. La più drammatica di tutte, perché è quella che rischia non di trasformarci in ibridi oggi imprevedibili ma pur sempre umani, bensì di distruggerci radicalmente. Parlo della trasformazione che sta logorando la dimensione sociale della nostra specie. Che rischia di farci diventare come quegli animali che vivono in totale isolamento, interrotto solo saltuariamente per la riproduzione e per poco altro. Ma noi non viviamo solitari come loro in territori isolati, al contrario continuiamo ad ammassarci in megalopoli. E la nostra socialità è scritta nei cromosomi, prima che addestrata in qualunque altro modo. Epperò siamo spinti — e ci corriamo anche di nostro — a un isolamento che peraltro finge di non essere tale, che nega se stesso poiché si costruisce una illusione di socialità surrogata. Una finzione online ben congegnata. Ma finzione: perché è una socialità che la nostra biologia non riconosce, in quanto essa ha bisogno di corpi, di contatti, di presenze.

Sarà anche per questa finzione ben congegnata che l’atmosfera collettiva nel mondo sembra orientarsi verso anacronistiche illusioni, miopi pur se abbaglianti, quelle che pullulano dappertutto nelle forme di cripto-razzismi e nazionalismi riesumate dai bassifondi della storia? Che peraltro non hanno nulla di quelli orgogliosi dell’Ottocento, ricchi di ideologie e liturgie delle sacralità di “corpi sociali” (che poi in verità nel Novecento i nostri avi hanno pagato con lacrime e sangue). E non hanno nulla delle “missioni storiche” affidate ai popoli o alle classi sociali (finite poi tutte tragicamente nei campi di sterminio). Perché sono nazionalismi di paura, non di orgoglio, di difesa, non di attacco. Non c’è nessun mondo nuovo che si apre, perché tutti i mondi nuovi che si dovevano aprire nelle ideologie del passato sono finiti nella cenere. Sono nazionalismi di persone solitarie, che davanti agli schermi che li hanno risucchiati dentro, si illudono di essere “nazione”, ognuno di essere la nazione che qualcuno, furbo, sulla scena politica sventola come promessa non si sa bene di cosa. Come se una volta spalancato il portone della globalizzazione, lo si potesse richiudere con carta velina e scotch! Sarà dunque per una rimozione collettiva, che non ci interroghiamo sul futuro che bussa alle porte?
E sarà allora per essere in linea con questa rimozione, e spostare l’attenzione altrove, che un candidato tra i più accreditati dai sondaggi a diventare governatore della regione più ricca d’Italia ha invitato a difendere la razza bianca? Oggi, non cento anni fa, dopo che le tutte scienze biologiche e genetiche e sociali hanno definitivamente chiuso il capitolo ottocentesco della razza? Oggi, in cui ben altri sono gli scenari del futuro, come sottolineavo sopra?
E allora il gesto apparentemente folle dello sparatore di Macerata rivela una deriva presente nel nostro momento storico. Gesto apparentemente folle il suo, ma che manifesta una follia collettiva, e questa non apparente. Quella di una rinuncia ad avere una qualche modalità attiva di pensiero-pensato collettivo.
