Antropologo a domicilio n°71 (17.5.2021)

C’è un’aria di attesa in giro, il malato ha superato la crisi più acuta, anche se non si può dire che l’abbia del tutto vinta. È in convalescenza, e questa è sempre un rischio. Si può tornare indietro, nella malattia, o si può andare molto lentamente avanti, verso la guarigione completa. C’è “astenia”, cioè debolezza, stanchezza, mancanza di energia. Si fa fatica a uscirne fuori completamente.
In un certo senso siamo tutti convalescenti post-pandemici.
In convalescenza si pensa, si indulge alla riflessione, alla meditazione, spesso è il momento giusto per tornare a leggere. A volte si torna alla letteratura (o se ne accresce la dote quotidiana). Io sono tornato ad Annamaria Ortese, ho preso in mano “Angelici dolori e altri racconti”, di Adelphi, del 2006. È incredibile come questa scrittrice colga il lato “convalescente” della vita, quello stato intermedio che non è l’esplosione vitale pienamente realizzata, ma neppure il cupo dissolversi della vita nella vertigine della fine, della distruzione, del male. In uno dei racconti, “Di passaggio”, dice di un personaggio, “Era una donna piena di luce, di vita”, poi generalizza verso Napoli e i napoletani prima della 2° guerra mondiale: “Tutti erano pieni di luce, di vita. Eppure c’era Hitler”. Pieni di luce e di vita, ma c’era Hitler.
In questa stato “convalescente” della vita raccontata da Ortese, spunta come un fiore nascosto, la bontà.
C’è un fiore che i botanici hanno chiamato “ignorato” (“neglectum”), è il “muscari ignorato”. Perché ignorato? Secondo alcuni (in Rete) perché è stato a lungo trascurato dai botanici, secondo altri perché è in sé modesto. Io lo trovo improbabile, il muscari ha un suo fascino. Insomma non so bene perché il “muscari” sia “ignorato”, ma so che a me ricorda il fiore nascosto della vita convalescente di Ortese: la bontà.
“Bontà” è una parola quasi vuota, anche se sacra. Allora la richiamo con le parole di un altro racconto di Ortese, “Masa”. C’è Alberto, è il fratello di Masa, che in una curva critica della vita si trova a riflettere (appunto): «E’ il bene» si disse Alberto, «è il bene che fa le persone belle. Come il sole sulla periferia, che anche la periferia, di aprile, diventa bella. Bisogna darlo o riceverlo»,” pensò «questo è tutto. E subito il mondo cambia»”.
È curioso come nel discorso comune la parola “bontà” sia quasi scomparsa e alligna invece come un’erba corrosiva la sua opposta, “cattiveria”. Quelli di voi che seguono il calcio avranno notato che i giornalisti, i telecronisti, i tecnici, gli stessi giocatori usano sempre più l’espressione “cattiveria” piuttosto che non so, “grinta”, “decisione”, “energia, magari “foga” o ciò che volete. Giocare al meglio di sé è diventato “essere cattivi”. Io mi chiedo come possa attecchire l’idea stessa della “bontà” nel linguaggio educativo per esempio, quando la sua antagonista è quella usata preferibilmente per indicare l’atteggiamento corretto da tenere in una gara. Ed è solo un esempio.
C’è una parola del discorso comune che negli ultimi anni ha mutato il senso stesso di quel “bene che si dà e si riceve” di Ortese. La parola “buonista”. Che è diventata come un’accusa di miopia e stupidità. O anche di falsità e arroganza di chi vive nel benessere.
Io al contrario penso che sia la parola “buonista” a essere stupida, meglio ancora l’accusa di “buonismo”. È implicito in quest’accusa una specie di calcolo, come se il “bene che si dà e si riceve” debba essere frutto di un ragionamento calcolante: se ti faccio del bene cosa ne avrò in cambio? Oppure: il bene che ti faccio è bene anche per me, per la mia società, per altre cose?
Che a veder bene è il ragionamento che si può fare per evitare il soccorso in mare. Se ti salvo da morte certa, portandoti sulla mia nave, e sulla mia terra, non è che alimento le future partenze di altri disperati come te? Cioè (appunto), non è che sono buonista? E allora non ti salvo. Così forse evito altre partenze. Già, ma intanto tu muori. Il bene che ti avrei potuto fare salvandoti la vita non l’ho fatto. E tu sei morto.
Che stupida questa accusa: buonista! Io penso che bisognerebbe lasciarla ai politici che hanno smarrito la parte umana del loro vocabolario.
E penso che nella convalescenza nella quale siamo immersi tutti valga invece quella riflessione di Alberto: il bene bisogna darlo o riceverlo, e questo è tutto. Perché subito dopo il mondo cambia.
Che si potrebbe dire in altre parole (non che voglia sostituirmi alla potenza letteraria di Ortese!): fare il bene (e riceverlo) significa togliere male, togliere dolore. O almeno ridurli, perché toglierli del tutto è impossibile. Ridurli però, togliendone un pezzetto qua, un altro là. Ridurre il male e ridurre il dolore. Esattamente come il convalescente giorno dopo giorno sente ridursi il male e il dolore nel suo organismo, l’intera società dovrebbe essere concentrata su un impegno collettivo che consiste in un imperativo morale per ciascuno: togli un pezzetto di dolore intorno a te, fallo, fallo incessantemente, che sia questa la medicina della convalescenza, per gli altri e per te stesso.
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