Antropologo a domicilio n°61 (I-II) (28-29.4.2020)
Dunque stiamo per entrare nella fase 2. Che non sarà molto diversa dalla fase 1. C’è un quadro molto confuso di informazioni, strategie, decisioni. E c’è profonda incertezza. Eppure nella confusione delle voci due temi emergono con chiarezza:
Responsabilità sociale
Esclusione sociale
Responsabilità sociale. Noi riflettiamo intorno al coronavirus così come la medicina ufficiale, la biomedicina, ci ha abituati a pensare in genere malattia e guarigione: il contagio, la malattia, la guarigione sono eventi personali, privati, del singolo. Il virus entra in un corpo (singolo) e lo attacca. Se l’andamento della cura è positivo, il virus sarà vinto nel corpo singolo. Ma è l’unico modo possibile? E soprattutto è quello giusto?
Riprendo per un momento il viaggio tra i “primitivi” che ho intrapreso nella precedente newsletter: “viaggiare” in mondi culturali diversi dal nostro ci dà modo di riflettere su di noi, guardandoci dall’esterno; ci è utile per trovare i limiti del nostro modo di pensare.
Per i “primitivi” (continuo ad usare questo termine improprio per comodità di discorso veloce), la malattia non era — come invece lo è per noi — un evento del corpo individuale, bensì del corpo sociale. Faccio l’esempio più semplice: l’infrazione di un tabù da parte di un membro di una “tribù” metteva a rischio tutta la “tribù”, non solo chi aveva infranto il tabù.
Quale tipo di pensiero c’è dietro questa credenza? Semplice: che ciò che fai, ha valore non solo per te ma per tutti. Se ci riflettiamo è un pensiero formidabile, che mette in discussione il nostro approccio singolare e individuale alla medicina. Noi siamo abituati a pensare che — per esempio — se fumiamo, se consumiamo droga, se facciamo una vita sedentaria, se abbiamo una cardiopatia o se siamo affetti da diabete o altro e mangiamo in maniera da compromettere il nostro stato di salute, la faccenda rientra nella nostra libertà individuale: “sono padrone io della mia vita!”. In questo modo ignoriamo l’impatto che il peggioramento della nostra condizione di salute produrrebbe da una parte sul sistema sanitario, cioè sui soldi di tutti, e, dall’altra, sul piano sociale, nelle relazioni affettive con la nostra famiglia e i nostri amici: morire di droga o di abusi alimentari per esempio non è solo una faccenda privata del sé! Costa soldi alla comunità e fa stare male chi ci ama.
Il modo di pensare “primitivo” della malattia come un evento sociale e non individuale può davvero tornare utile — e forse indispensabile — in tempi di coronavirus. Per quel modo di pensare non ha senso l’idea che il male attacchi un individuo singolo. Il male attacca tutti attraverso l’attacco di un singolo. Di conseguenza, i miei comportamenti sbagliati non sono solo una minaccia per me, ma per tutti: se infrango un “tabù” produco danni a tutta la “tribù”, non solo a me stesso. Ecco: responsabilità sociale.
Ora che stiamo per entrare nella fase 2, l’abitudine a pensare la malattia come una questione personale e individuale probabilmente ci spingerà ad assumere precauzioni per salvaguardare noi stessi dal contagio. Difficilmente rifletteremo sul fatto che comportarsi bene preserva anche gli altri dal rischio. Un asintomatico positivo al Covid-19 potrà pensare: “chi se ne frega di portare la mascherina, di tenermi a distanza dagli altri, tanto a me questo virus non fa niente” (ricordate ai tempi dell’HIV?). E di conseguenza si comporterà in modo da mettere a rischio gli altri.
In conclusione, imparare a pensare la malattia come una questione sociale, ci metterebbe in migliori condizioni per affrontare la fase 2. Cioè ci doterebbe del senso della nostra responsabilità sociale.
E questo è il primo tema. Domani proporrò il secondo: esclusione sociale.
Ed ecco il secondo tema (il primo era nel post di ieri):
gli “esclusi”.
Il pensare la malattia come una questione sociale e non più individuale (come ci insegnano i primitivi), può consentirci di fare un enorme passo in avanti, anzi due, forse decisivi per le sorti dell’umanità e della terra. Lo capiscano i politici di tutto il mondo, altrimenti non ci sarà futuro (ma capiamolo pure noi, nelle nostre distratte autoreferenzialità).
Il primo passo. Perché guardiamo (giustamente) ai medici, agli infermieri, a tutto il personale sanitario impegnati nell’emergenza del Covid-19 come degli eroi? Perché in una realtà in cui ognuno è stato invitato a proteggere se stesso (attraverso la chiusura in casa), essi hanno protetto e proteggono gli altri. Cioè si prendono cura degli altri. Allarghiamo il loro comportamento a tutti e avremo il primo passo in avanti decisivo: da un pensare-sempre-e-soprattutto-a-se-stessi, a un prendersi-cura-degli-altri-e-del-mondo-intero. Cioè da un comportamento auto-protettivo di cura del sé a quello di cura degli altri (e dell’ambiente).
Ma i due comportamenti si autoescludono? No. Prendersi cura degli altri significa anche prendersi cura di sé. Il coronavirus ci sta spingendo a comprendere fino in fondo (e chi dorme si svegli) quanto siamo connessi, legati, una sola specie, una umanità globale (e quanto dipendiamo dall’ambiente e non solo viceversa). Non è ideologia, davvero: ogni pensiero di divisione contraddice i fatti che ci sono davanti agli occhi. Altro che “ce la facciamo da soli”. La posta in gioco è farcela insieme o non farcela. Prendersi cura degli altri è l’altra faccia del vero prendersi cura di sé.
Eppure non basta. Pur importantissimo questo primo passo non basta. Occorre un secondo passo. Senza del quale il primo sarebbe solo apparente. Occorre che il prendersi cura degli altri diventi POLITICA. Altrimenti rimarrà uno sforzo vano che impegnerà individui virtuosi, ma non muterà gli assetti sociali.
Osserviamo questa sequenza lineare di attuali aspettative comuni:
/evitare il contagio-oltrepassare-la-pandemia-ritrovare-il-proprio-posto-nel-mondo: lavorativo, economico, sociale/.
Ovvia no? sono le nostre “normali” e “giuste” aspettative. Ma questa linea di aspettative non appartiene a tutti. Per alcuni la linea si riduce a una sola parola:
/sopravvivere/.
Per alcuni cioè, la pandemia è solo un altro dei ricorrenti ostacoli che si trovano davanti nella quotidiana e interminabile impresa di sopravvivenza. Sto parlando degli “esclusi”. Spesso invisibili. E di cui la pandemia rivela oggi, e ancora di più rivelerà nei prossimi mesi, il loro drammatico moltiplicarsi nel mondo contemporaneo. Solo qualche esempio (italiano):
a)se parliamo di scuola a distanza, v’è una quantità enorme di bambini che non ha collegamento informatico per usufruirne (1 ogni 5 secondo Save the children);
b)se parliamo di “stare a casa” v’è una quantità enorme di persone che la casa non ce l’ha;
c)se parliamo di godere di un periodo casalingo nella famiglia e con serenità, c’è una quantità più che enorme di persone che vive in spazi ristretti e affollati, e che non conosce la serenità familiare;
d)se parliamo di lavoro, c’è una quantità enorme di persone che il lavoro non l’ha mai avuto. Oppure che l’aveva e non ce l’ha più.
Poi, e), f), g)….
Questo per l’Italia. Se allargassimo lo sguardo sul mondo, molti di noi subito dopo chiuderebbero gli occhi per l’orrore della dimensione enorme dell’esclusione sociale. Intendiamoci: quasi ogni società storicamente conosciuta ha avuto esclusione sociale. Ma ciò che oggi sconvolge è la dimensione, che non si arresta anzi cresce. Ancora per l’Italia: dal 2007 al 2017 il numero dei poveri è cresciuto del 181%: attualmente supera i 5 milioni di persone (fonte Caritas). Torniamo al mondo e prendiamo l’esempio della “fame nel mondo”. Poiché siamo nella parte privilegiata del mondo ci hanno sempre fatto poca impressione i numeri: un miliardo, due miliardi, non di noccioline ma di esseri umani come me, come te. Che la sera “vanno a letto a stomaco vuoto”, per citare David Beasley, direttore esecutivo del Programma alimentare mondiale (WFP) dell’ONU. Bene — cioè, male — alla fine del 2020, secondo Beasley, se ne aggiungeranno circa altri 130 milioni. Non di noccioline.
E allora: è sbagliato pensare di uscire dalla fase 1 e poi dalla 2 e poi dalla 3 e finalmente (con il vaccino), rientrare nel “mondo di prima”. Perché questo mondo di prima con la pandemia scompare. Preciso: che scompaia è ovvio; si tratta di decidere se deve scomparire in modo virtuoso (cioè pilotato da una buona politica) o invece vizioso. In questo caso non saprei prevedere cosa ne sarebbe di noi.
Se il prendersi cura di sé e degli altri (e dell’ambiente) diventa POLITICA, allora finalmente si potrà affrontare il problema centrale delle società contemporanee: l’intollerabile produzione di esclusione sociale, la moltiplicazione inverosimile di esclusi. Tutte le volte che questo mondo fa un passo avanti, aumenta il numero delle persone che lascia indietro. Oh, certo, c’è un’enorme diffusione della solidarietà, persino “bontà” sociale, a sostegno degli esclusi. Ma si sta colmando la misura oltre la quale possa bastare. Il volontariato sociale, va bene; gli aiuti agli indigenti, agli immigrati, le mense dei poveri, la Caritas, vanno bene. E vanno bene le casse integrazioni, ordinarie, speciali, i redditi di emergenza e tutto il resto. Va bene tutto ciò che possa aiutare, sostenere, dare solidarietà. Ma la misura dell’esclusione sociale globale sta sovrabbondando, tutti gli sforzi non sono più sufficienti.

E allora ciò che andrebbe meglio è cominciare a ripensare questo modello di società in cui si produce contemporaneamente ricchezza e povertà, benessere e esclusione sociale, salute e malattia, ambiente e distruzione. Cioè lavorare perché si arrivi a un modello sociale che rimetta al centro la vita e non esclusivamente il profitto. Utopia? Sì, utopia. In un mondo di egoismi crescenti — che però rischiano di andare a cozzare contro la pandemia stessa, che di suo non è “egoista” — è utopia. Ma dobbiamo tornare a pensare l’utopia, averne il coraggio. Uscire dall’indolente rassegnazione a ciò che è. Il coronavirus ci spinge a pensare in grande. Altrimenti ne saremo travolti.