Questa volta voglio parlare di un’immagine, anzi due. Lo stupore negativo sul volto di un bambino. È un’immagine della guerra in Siria. Il bambino è stato estratto da una casa bombardata e messo in un’ambulanza. Guarda davanti a sé il vuoto. Questa foto ha una tragica forza “estetica” che inquieta e commuove. Circola anche un video cui in pochi secondi si assiste all’estrazione del bambino dalle macerie della casa caduta, alla corsa del suo soccorritore verso l’ambulanza, al deposito del bambino su una sedia, al suo rimanere immobile per poi passarsi una mano sulla fronte, notare il sangue sulla mano, strusciare la mano sulla sedia quasi a mondarla dal sangue e infine al suo rimanere immobile. Senza lacrime, senza agitazione, senza ricerca dei suoi parenti, stupore. Stupore negativo. Stupore davanti all’orrore. E l’orrore è vuoto. Stupore del cogliere improvvisamente il vuoto di ogni senso.
Nelle parlate meridionali si conserva ancora il temine “attassamento” per segnalare quello stupore catatonico, paralizzante, che in passato poteva prendere le persone, soprattutto donne, alla notizia della morte di una persona cara. Stupore che staccava dalla realtà e impediva non solo di avvertire il dolore ma soprattutto di potersene lentamente liberare nel cordoglio. Dall’attassamento si usciva grazie al rito funebre — la lezione del grande antropologo Ernesto De Martino in “Morte e pianto rituale” è ancora alta — con cui si riprendeva presenza, vita, cultura. Cioè si affrontava la realtà, la si imbrigliava nel rito, la si condivideva in un cordoglio corale, infine la si oltrepassava. Quel bambino è attassato. Cioè ha perso la presenza, la vitalità, e non ha un modello culturale che gli consenta di resistere e oltrepassare la condizione nella quale si trova. Meglio sarebbe piangesse, urlasse, meglio sarebbe cercasse conforto e protezione. Il suo silenzio raggelante e sospeso è quello dell’essere umano davanti all’orrore dell’insensatezza.
C’è un’altra immagine di cui voglio brevemente parlare. Il riso sardonico stampato sul volto del dipendente della Lidl che ha messo in gabbia la donna rom nei pressi del supermercato di Follonica qualche giorno fa. Non conosco le circostanze in modo approfondito. All’ingrosso so che due donne rom sono state rinchiuse da alcuni dipendenti della Lidl in un gabbiotto dopo essere state scoperte a frugare nella merce rottamata, cioè nella pattumiera, del supermercato. Che ne è stato fatto un piccolo video che in Rete ha raggiunto migliaia di visualizzazioni. Che tra gli utenti della Rete c’è stata una maggioranza a favore dei dipendenti e ostile alle donne rom. Tutto abbastanza scontato oggi. Mi fermo qui, altre notizie più circostanziate sono disponibili sui giornali, penso, forse anche in approfondimenti in Rete. Ma io mi fermo al riso sardonico stampato sul volto del dipendente della Lidl. Potrei solo aggiungere del suo tono di voce nel video mentre diceva alla donna imprigionata “non si fa! non si fa!” che ricordava alla lontana quello di un adulto rivolto a un bambino. Un tono di voce paternalistico, accondiscendente persino, ma che non riusciva a nascondere una sorta di godimento dell’esercizio di un potere sul corpo di un altro. Il riso sardonico davanti alla vittima, ecco, questo è il succo dell’immagine che io vedo.
Qui non è in questione se il dipendente abbia fatto bene, come si sono agitate ad affermare violentemente alcune decine di migliaia di persone sui social, o ha fatto male perché la giustizia non può essere fai-da-te. Cioè non è in questione un problema di giustizia, legittimità, sicurezza, diritto, reato, pena e così via. No, qui è in questione il riso sardonico stampato sul volto dell’uomo mentre la donna urla dalla paura. Quell’”in più” del gesto con cui l’uomo a suo dire voleva punire una ladra (concediamogli pure la buona fede). Quell’”in più”. Che ha un valore sociale, non individuale. Si ride e si sorride in presenza degli altri e solo molto parzialmente da soli, sostengono gli studiosi. Cioè ridere, sorridere, è costruire socialità, appartenenza, identità. E riesce meglio quando si ride degli altri. Si sa. Ma la gravità è che quell’”in più” messo candidamente in Rete (poi tolto quando l’eco è diventato devastante) mostra che ridere del dolore altrui oggi non è più un tabù, ma si fa, si può, e si comunica agli altri perché ne ridano. E infatti gli altri ne ridono. E così si costruisce socialità. Sembrava che il bullismo fosse una faccenda di adolescenti non ancora “formati”, invece la sua versione adulta torna a essere un’attività tragicamente corrente. Fino ai più recenti secoli della modernità in Europa si facevano feste intorno al patibolo dei condannati a morte, si mangiava, beveva, ballava, rideva. In tedesco c’è un termine, schadenfreude, che significa “piacere provocato dalla sfortuna altrui”, termini simili sono in altre lingue. Tornano in mente le scene dei pogrom, in Germania, in Francia, in Polonia, nel paesi baltici, in Russia, altrove. Torna in mente e pare si riavvicini l’orrore delle guerre e dei genocidi del Novecento europeo.
Mi fermo qui. Ma è un discorso che non va fermato.
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