Antropologo a domicilio n°21 (26.76.2017)

Vado per un sentiero sul fondo di una lunga spiaggia, di quelle che trascinano lo sguardo all’orizzonte. Da lontano mi chiamava e ci sono andato. Passo per una galleria di roccia che si spalanca oltre, al cielo e al mare, arrivo in una piccola conca d‘acqua e di rocce, m’inerpico per un gradino di pietra, il desiderio di arrivare in fondo. È mattino, il sole è timido, le acque terse, il mare fermo, il vento non c’è. La pressione è bassa, la mia, organismo vivente nella vita, cammino incerto, è come se avessi leggeri giramenti di testa. Sono guardingo, valuto ogni passo, sorveglio i costoni che mostrano pietre e rocce affioranti nella malta naturale e che sembrano cadere da un momento all’altro, bado di non graffiarmi passando loro vicino. Sporgono enormi alcune rocce sulla mia testa, penso che se arriva proprio in quel momento un terremoto ne rimarrò sepolto. Ma guarda che pensieri, al mattino, mi dico. Preso da piccoli incanti dei colori, imprevedibili trasparenze, leggerissimi fiori, rari uccelli, vorrei fotografarli, lo faccio? titubante, incerto. Al pomeriggio ci torno, il sole è diventato aspro, violento, l’aria è densa di vapori dell’irradiazione del giorno, la luce è sconvolgente, abbaglia. Sto bene, il corpo risponde, cammino sicuro passo per passo, non sorveglio con attenzione, lungo le gambe qualche graffio di sterpaglia o di rocce, quasi benefico nella sfida di vita. Curiosamente non mi sfiora un desiderio di guardarmi intorno nè di fotografare come al mattino, cammino e basta, per raggiungere la meta all’orizzonte, là dove le rocce sprofondano nel mare e cancellano il sentiero.
Io, la stessa persona al mattino e al pomeriggio, due passeggiate due corpi diversi, due esperienze alternative. Poesia e sfida.
Ma cos’è questa newsletter 21, antropologo a domicilio o autobiografia? C’è pane, c’è pane per l’antropologo a domicilio.
Se nella stessa persona cambia così radicalmente la percezione delle cose, se dal mattino al pomeriggio il mondo sembra un altro e la persona immersa in esso è davvero un’altra, cosa avviene allora tra persona e persona? Come facciamo a essere sicuri di essere insieme, percepire le stesse cose, condividere un mondo comune? Come faccio a essere sicuro che il mondo per me sia lo stesso per te? Il grande cruccio di ogni sospetto di incomunicabilità.
I filosofi, i teologi, i grandi pensatori hanno cercato per millenni di rispondere implicitamente a tali domande. Ma le comunità umane, pur anche senza farsi le domande filosofiche giuste, avevano da millenni risposto al dubbio, coperto l’angoscia dell’estraneità reciproca, non con una teoria ma con una pratica sociale: il rito. La comunità costruiva una messa in scena rituale (molti dicono che da lì venne il teatro: la laicizzazione del rito), fatta di comportamenti, azioni, messe in scena simboliche. I quali si tiravano dietro emozioni, sentimenti, stati d’animo che diventavano obbligati, che erano modello cui adeguarsi, scuola di emozioni, “così si fa, questo si sente”. E allora la differenza tra persona e persona si annullava (si era annullata già quella dentro la stessa persona, come la mia nelle due passeggiate marine) poiché tutti avevano una regola, un modello, un simbolo con cui imparare a sentire il mondo o, per quelli più ambiziosi, spiegarselo.
Poi cambia il mondo, si fa complesso, più complesso, e la scuola delle emozioni passa ad altri protagonisti, l’arte, la letteratura (c’era un grande antropologo scozzese, in seguito americanizzato, si chiamava Victor Turner, che spiegava queste dimensioni con i grandi concetti teorici del “liminale” e del “liminoide”, ma questo lasciamolo a chi studia di mestiere queste cose).
Poi arrivano i social. Tutto insieme è ricchezza, insieme rito, arte (creatività), social sono ricchezza. Insieme però. Nessuno da solo. Nessuno ce la fa da solo. Insieme sono ricchezza. Da soli impoveriscono. Il rito senza creatività artistica oggi è troppo povero. Ma l’arte per l’arte è povertà, perchè o essa serve alla comunità o è gioco claustrofobico. E i social. I social da soli come puro spreco espressivo privo di condizioni di ascolto reale tra le persone, sono onanismo suicida. Tutti insieme sono ricchezza.
I social sono oggi l’attacco diretto più forte in assoluto al sociale. A meno che non si impari ad assumere una logica sociale di questo divertimento solipsistico e individuale. A meno che non si colga in esso la sua nascosta radice antropologica. Che rimane la sua socialità. I social sono oggi la tecnologia di cui l’umano è protesi. Occorre rovesciare l’ordine e fare della tecnologia la protesi dell’umano. Deve essere un impegno quotidiano. Di ciascuno di noi. L’alternativa è la scomparsa dell’umano.
Back to Top