
È una terrorista delle Brigate rosse. Da qualche settimana sta sorvegliando a Roma i movimenti di Aldo Moro e della sua scorta. Una volta viene a trovarsi vicinissima ai poliziotti e al politico. Sono a piedi, su un marciapiede, accanto a un’edicola. Per simulare normalità e indifferenza, la terrorista compra un giornale. Ma è ciò che stavano per fare anche loro, che si mettono in fila dietro di lei. Il cuore le batte all’impazzata, è convinta che l’abbiano individuata, che stiano per bloccarla. Nella fretta non prende il resto dei soldi e fila via. “Signora”, una voce la chiama alle spalle, la mano scivola verso la pistola, è pronta a tutto mentre si gira, “ha dimenticato il resto”. L’uomo che le ha parlato sarà ucciso qualche settimana dopo durante il rapimento di Aldo Moro. Non da lei, da altri, ma di questo assassinio lei si sentirà responsabile come gli altri. La donna racconterà questa storia in un incontro di ex terroristi e parenti delle vittime, davanti a lei il figlio di quel poliziotto. La sua è una memoria di un irrimediabile, smisurato, una matassa raccapricciante che le grava dentro e trasborda dappertutto. E che deve necessariamente raccontare.

È una viceprefetto. Apre una lezione in un corso di formazione per tutori di bambini stranieri non accompagnati, una figura inventata da una recente legge entrata da poco in vigore. Racconta degli anni Novanta del secolo scorso, quando prestava il suo servizio al confine con la ex-Jugoslavia e arrivavano treni dei profughi dalla Bosnia. Piombati. Esattamente come quelli che portavano i deportati nei lager nazisti. Piombati per evitare che i profughi scappassero se avessero scoperto che venivano portati lontano dalle loro case. Racconta che c’era un momento che le serrava la gola. Quando il treno si fermava in stazione all’arrivo in Italia, e venivano aperti i portelloni dei carri. Erano i secondi che separavano l’apertura dei carri dalla fuoriuscita dei profughi. Le si sono scolpiti nel ricordo. Come una memoria di qualcosa di irrimediabilmente fuori misura per la sua umanità.

Due storie diversissime. Lontane. Ma accomunate per avere al centro due impreviste increspature sulla superficie liscia delle cose-che-si-fanno. Che si devono fare. La superficie liscia, senza intoppi di domande e dubbi, con cui si presenta tutti i giorni la sfera delle azioni da svolgere. Due increspature su cui le protagoniste sorvolano mentre agiscono, ma che apriranno rovelli incolmabili in futuro.
Le increspature rivelano l’imperfezione delle sfere consuete di ciò che si fa, si “deve” fare. Spalancherebbero altre possibilità del mondo, se ci si fermasse davanti: tu pensi che sia questo il mondo, questo in cui stai agendo, questo che dà la forma di sfera perfetta alla tua azione. La sua cornice familiare. Ma è perché non vedi le increspature, che la tua azione ti appare agevole, persino giusta. Se improvvisamente ne intravedessi una, ti si spalancherebbe una possibilità che non sia questo il mondo, che sia un altro. Non questo dentro cui la tua azione si sta svolgendo fluida, normale. Un altro mondo, in cui tu ti prendi la responsabilità di un altro.

C’è una terrorista. Che spia e sorveglia le sue “prede” umane. Lei non se lo aspetta, ma una di queste la interpella amichevolmente, “ehi! sta dimenticando il resto!”, forse ha un sorriso sulle labbra, forse sta pensando “potresti essere mia figlia”, forse alla donna quegli occhi ricordano uno sguardo remoto, i rimproveri del padre, burberi e giocosi insieme, “sei sbadata”.
Ma no, niente fronzoli e fantasie, quei due sono una donna e un uomo come tanti, che per strada si incrociano e a lui viene di farle una gentilezza. Non una terrorista e la sua preda umana, sono un tu e un io e basta. E questo ricordo rimane incancellabile. E un giorno sarà raccontato al figlio di quell’uomo ucciso.

E poi c’è una viceprefetto dello stato italiano, che ha il compito di sorvegliare che l’operazione di apertura delle carrozze, che comprende riconoscimento, conteggio dei profughi e loro trasbordo nei centri di accoglienza, si svolga regolarmente come previsto. All’improvviso la viceprefetto si blocca. Però non è esatto, non si blocca, continua a svolgere il suo compito come se niente fosse, e invece è proprio dentro di lei che succede, che qualcosa si blocca, anzi no, si sblocca, qualcosa che spalanca una finestra e dentro un vano segreto della memoria deposita un ricordo. Che non si cancellerà più. Immobile sul silenzio che segue l’apertura dei carri, e che prevede l’uscita dei profughi. “Dio mio che ci faccio qui”. Non subito, dopo anni, ma per sempre, forse fino alla fine della vita.

Se la terrorista e la viceprefetto avessero ascoltato l’invito silenzioso che le increspature improvvise sulla superficie liscia dei loro mondi facevano loro, forse le loro vite sarebbero del tutto cambiate. Forse. Se le avessero colte nel loro valore di segnale di un altro mondo.
Nessuno — o pochi — riescono a “fermarsi” davanti alle increspature che pur si intravedono sulla superficie apparentemente liscia delle cose che si fanno. Apparentemente liscia, perché liscia non è mai. Siamo noi che la vediamo liscia, per poter agire senza fermarci ogni attimo nel corso delle nostre azioni. Per pensarci su il meno possibile.

Ho una terza storia. Lara e Letizia sono due amiche da sempre. Hanno quasi cinquant’anni e sono nate a tre giorni di differenza. Lara è malata, molto, ha una glomerulofrenite, da anni aspetta un trapianto al rene. Un giorno le due amiche vanno a mangiare una pizza. “Quella pizza insieme! — è Letizia che parla — Ricordo tutto, ogni particolare, persino come eravamo vestite». Quella pizza. In pizzeria Letizia si blocca. Mentre mangia la pizza con la sua amica si blocca. Trova una increspatura sulla superficie liscia delle cose che si fanno, si devono fare. Una banale azione in verità la sua, una banalissima cosa che fa, sta mangiando una pizza con un’amica, tutto qui. Ma l’increspatura improvvisa che vede, le cambia il mondo: «il rene te lo do io. Tu devi tornare a ridere come una volta».
Questa volta ho voluto raccontare, solo raccontare, nella newsletter “antropologo a domicilio”. Due storie anzi tre e nessuna riflessione “antropologica”. Due storie anzi tre. Si raccontano storie per riflettere sulla vita, sugli esseri umani, su ciò che siamo, su ciò che dobbiamo essere, ci piacerebbe essere, diventare (questo nell’uso comune, non nelle teorie estetiche e letterarie. Lasciamole da parte ora). Nell’uso comune raccontare è cercare una “morale”. Condividerla. È fare comunità morale, accordarsi su ciò che è giusto e bello e buono.
Ma non c’è “morale” in questa newsletter. C’è forse un senso tragico. Il troppo poco o il troppo di ogni esperienza di vita.