Antropologo a domicilio n°24 (11.9.2017)

Oggi voglio parlare di felicità. E la felicità ha a che vedere con il clown. Perchè la felicità è “andare a tempo” con gli altri. Condividere un ritmo o più ritmi nello stesso tempo (musicale). È questo che ci tiene uniti agli altri, è in questo che esprimiamo affetto e lo riceviamo, è il ritmo che ci dà la certezza che non siamo soli al mondo, che c’è affetto intorno a noi, davvero “lui” ci ama, “lei” ci ama, “loro” ci vogliono bene, ci apprezzano. Ed è cominciata in questo modo la nostra vita, con qualcuno che ci ha accolti, ci ha amati. E noi, piccoli animaletti appena venuti al mondo avevamo un sol modo per capirlo, non le parole, non le promesse, non i significati. Avevamo il corpo. Il corpo caldo che ci accoglieva, ci cullava, ci nutriva. E ci sorrideva. Epperò subito avvertimmo che non bastava ricevere un sorriso, essere accolti in un corpo. Da subito capimmo che dovevamo sorridere in risposta. Accogliere dopo essere stati accolti. Per il fatto di essere stati accolti. E allora per la prima volta scattò quel meccanismo della felicità che è “andare a tempo” con gli altri. Lo stesso che da adulti cerchiamo quando stiamo con gli altri, e che raggiungiamo se con gli altri stiamo bene. Facendo l’amore per esempio, o in un concerto rock, o una gita di amici tra cui ci si vuole bene, o in una grande festa in cui ci si sente bene in mezzo agli altri. Tutte esperienze dell’”andare a tempo” con gli altri. Al sorriso in risposta un sorriso, allo sguardo uno sguardo, al tocco un tocco, alla battuta una battuta (o la risata). Capirsi a volo, anche senza parlare, e “sentire” simultaneamente, e ridere, mangiare e provarci gusto. Insieme. Soffrire persino insieme. Esperienze di ritmo condiviso. La felicità. Per gradi, certo, non sempre si raggiunge il vertice, a volte c’è un “semplice” star bene, altre invece si tocca la punta più alta, il climax della propria vita emotiva, di cui ci si ricorda anni dopo e che lascia un segno per sempre. Come appunto avviene per il vissuto da bambini. Accolti (o malauguratamente non accolti: e da qui una infelicità o almeno insoddisfazione che segna). Questa è musica. Musica primigenia che gli esseri umani da poco venuti al mondo fanno con chi li accoglie, perché la comunicazione felice per essi è un’esperienza musicale (protomusicale). E anche per noi adulti. Che cerchiamo ritmo con gli altri, duetti ritmici, trio e poi bande e orchestre. Ritmiche, musicali.​​​​​​​
E c’è poi un colmo della felicità: in termini musicali, chi studia queste cose la chiama ”aspettativa tradita”, ma poi confermata. È in sostanza il gioco del cucù, che da bambini ci incantava. Pekaboo. Quella scomparsa del corpo amato, del suo volto, e poi il suo ritorno, la riconferma del suo esserci. E avviene nella musica dal vivo, quando un buon musicista tradisce la nostra aspettativa di ascoltatori, ciò che abbiamo già in mente – anzi in corpo – e che lui non conferma, ma tradisce con una improvvisazione, una distorsione, una nota inaspettata. E che poi dopo averla tradita, riconferma, tornando a ciò che avevamo in mente. Tutta qui la differenza tra una musica dal vivo e un pezzo registrato, tutta in quel tradimento delle aspettative che ci dà un’eccitazione particolare, che ci fa urlare di gioia certe volte, saltare, sobbalzare. O ci commuove.
Ehi, ma questo è proprio il terreno su cui si muove il clown! Perchè è proprio sul ritmo condiviso che lui gioca, e ne fa la sua ricetta della felicità. Guardatelo un clown: sistematicamente lui tradisce il ritmo, va apposta fuori tempo. L’azione più banale? quella su cui la nostra normale aspettativa è che chi la compie segua la sequenza corretta? Lui la sbaglia. Tradisce la nostra aspettativa. Il tradimento è nella sua goffaggine, nel gesto sbagliato, nel disorientamento in ciò in cui tutti si orientano. In una parola, nel suo andare “fuori tempo”. E in questo modo, facendoci ridere per una reazione quasi istintiva, richiama a noi il tempo che noi condividiamo con gli altri. Ci fa sentire, noi spettatori, tutti bene inseriti nel tempo condiviso. Tutti parte di un Noi che non è goffo, non sbaglia, non è disorientato, va a tempo.
Ehi, ma allora il clown fa socialità! Sì, proprio così. E – attenzione - la fa autoescludendosi. Cioè con la sua goffaggine, lui si mette fuori dal gruppo. Noi ci guardiamo intorno e ridiamo, ridono tutti: “ma guardate che scemo! – ci diciamo come bambini – lui non sa fare ciò che noi facciamo così facilmente!”. Col suo gesto goffo il clown cancella senza che ce ne rendiamo conto il rischio per noi di essere esclusi: lui “non sa fare”, noi altri sì. Insomma il clown fonde le persone che gli sono davanti, quelle che fanno da pubblico, e che ridendo si sentono insieme (che ci piaccia o no, ridere di qualcuno serve a costruire socialità tra chi ne ride. Escludendo colui di cui si ride. Ci piaccia o no. Per questo Charlot, per questo la maschera di Totò. Forme di esclusione attenuata. Come il clown. Che si autoesclude perchè gli altri si sentano gruppo, si sentano “Noi”. Come avveniva con il capro espiatorio, il cui allontanamento era un potente meccanismo di fondazione di comunità. Quello che il clown mette in scena è un piccolo sacrificio simbolico. In cui lui è la vittima sacrificale. Lui si “immola” per noi).
Non è una roba da niente un meccanismo del genere. Gioioso meccanismo. Positivo, felice, rasserenante. Aperto. Socialità sorridente. L’alternativa oggi - il meccanismo alternativo di socialità - è la rabbia. Anch’essa fonde, unisce, fa socialità. Ma appunto rabbiosa, ferina. Autodistruttiva. Perchè a lungo andare la rabbia non si ferma più. Vuole la guerra. Quella vera. Gli esempi nel mondo oggi sono veramente tanti.
E non è tutto, non è tutto. Oggi non è tutto. Oggi c’è “altro”. Ci sono gli “altri” in mezzo a noi. Enorme problema, epocale. Cui l’attuale politica non riesce a dare una risposta all’altezza. E che nel vuoto della politica sta suscitando le peggiori risposte collettive. Ma che inevitabilmente accompagnerà i prossimi decenni, segnando irrimediabilmente il futuro. Di intelligenza inclusiva o di autodistruzione umana barbarica. I clown “fanno” una risposta. Ci vorrebbero più clown. Occorrerebbe moltiplicare i clown, far respirare la società con il loro ossigeno, metterli a disposizione per pronti interventi nelle situazioni critiche. E poi inserirli stabilmente nelle scuole, che dovrebbero avere clown a lezione, tre ore almeno a settimana? Facciamo quattro. E non per fare pupazzetti e bricolage, ma per fornire il sacrificio di sè che è l’azione del clown. Perchè è lui che può suggerire l’inclusione (che non si insegna con i piani e i programmi: si fa). Autoescludendosi, il clown può creare ritmo condiviso anche tra coloro che in partenza non ce l’hanno. E che possono trovarlo proprio a cospetto della sua azione. Del suo tradimento delle aspettative. Quello contenuto nella ovvietà delle azioni quotidiane che il clown goffamente sbaglia, e per questo fa sorridere o ridere gli spettatori. E ridere insieme tra persone che vengono da mondi diversi può essere il primo passo per riconoscersi umani insieme. Non questo contro quello ma questo e quello. Insieme.
Futile il clown? Sì, di una futilità essenziale per gli esseri umani. Nessun altro animale vivente è capace di tale futilità. Perchè essa definisce la specie umana. La sua è la futilità della musicalità della comunicazione felice. Chiamatela ancora futilità! Certo, lo è per il meccanismo produttivo, a cui basta una mera comunicazione senza “fronzoli”. Ma è questa futilità, è proprio questa futilità che ci fa umani e non macchine. Animali speciali che sono capaci di volersi bene.
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