Antropologo a domicilio n°89 (10.10.2023)

La guerra è una cosa maschilista come lo è il femminicidio. Li accosto per questo motivo. Sembrano fenomeni lontani, in realtà sono vicinissimi nel sottofondo della cultura maschilista che continua a dominare il mondo.
La donna è una preda. Di lei si può fare qualunque scempio poiché essa è una cosa da depredare. In faccia a lei stessa, se si tratta di femminicidio. In faccia al nemico se si tratta degli ostaggi catturati da Hamas: per dimostrare la sua debolezza di maschio che non è stato in grado di difendere la sua femmina. E la risposta dell’aggredito è dello stesso tenore maschilista: “vendetta”, grida Netanyahu, “vendetta”, facendo risuonare l’antico urlo di Achille alla morte di Patroclo.
L’economista Ginevra Bersani Franceschetti ha recentemente pubblicato un libro, “Il costo della virilità”, in cui sostiene in modo semplice ed efficace con dati alla mano: gli uomini sono protagonisti del 92% degli omicidi, del 98% degli stupri, dell’87% degli abusi su minori, dell’83% degli incidenti mortali. Sono dati del 2018 per l’Italia.
Io penso che tutti dovrebbero pensare al proprio ruolo nel perpetrare quella cultura maschilista che nei casi estremi porta al femminicidio. E alla guerra.
Sì, pensare al proprio personale ruolo.
E ora mi stacco dalla questione della guerra (su cui tornerò) per concentrarmi sul femminicidio.
Mai come nel caso della violenza sulle donne c’è una vasta vastissima zona grigia che lambisce le gambe di molti di noi uomini, forse tutti. E che s’allarga anche a molte donne, sicuramente non tutte.
“Zona grigia” è il termine che usa Primo Levi per spiegare che nei lager non c’erano semplicemente da una parte i buoni, dall’altra i cattivi. “E’ talmente forte il  noi, forse per ragioni che risalgono alle nostre origini di animali sociali, l’esigenza di dividere il campo fra “noi” e “loro”, che la bipartizione amico-nemico prevale su tutti gli altri”. Io penso che questa definizione di zona grigia si possa estendere anche all’enorme problema sociale del femminicidio. Problema sociale, non individuale o privato dell’uomo che uccide la sua compagna.
È il patriarcato, la cultura maschilista del patriarcato, con tutte le sue derivazioni e mediazioni, che tra noi, in mezzo a noi, continua ad alimentare la violenza sulle donne, grazie alla nostra involontaria connivenza. Questo è il vero punto della questione. Ciascuno di noi dovrebbe quotidianamente riflettere sugli schizzi grigi di questa cultura che ci macchiano sistematicamente. Potrei fare un elenco interminabile di esempi. Ma mi limito a sottolineare che contro il femminicidio non bastano manifestazioni e repressioni. E neppure prevenzioni di natura legale e giudiziaria (pur importantissime). Occorre poi passare a se stessi. E studiare se stessi. Occorre scovare i riflessi condizionati che continuano a portarci a una gerarchizzazione dei sessi e poi dei generi femminile/maschile. E questo riguarda anche le donne, che nelle funzioni di madre o di educatrice continuano spesso ad alimentare questa cultura con una netta separazione tra educazione per i maschi e per le femmine.
Ciò che voglio sostenere è che se vogliamo ridurre nel futuro il numero dei femminicidi (la guerra è un’altra cosa, richiama anche l’attuale politica e l’attuale economia che dominano il mondo) dobbiamo lavorare su noi stessi, prima ancora che denunciare il maschilismo degli altri. Anche perché non abbiamo alternative: non freneremo certo il prossimo violento che ucciderà una donna se ci limitiamo a partecipare a una manifestazione contro la violenza sulle donne.
Il numero dei femminicidi non si riduce neppure se le donne conquistano posizioni sociali più ampie del passato. Poiché la presenza delle donne nel mondo del lavoro, per esempio, non limita la frequente prepotenza maschile nei loro confronti. Anzi, tutt’altro, la esacerba persino. Poiché la questione non sta nel ruolo sociale delle donne, ma proprio nel loro ruolo privato. Dobbiamo tenere molto presente davanti ai nostri occhi che è nelle case che nasce la violenza e questa non è in relazione con il ruolo sociale della donna, ma con l’idea intima maschilista della sua inferiorità. E qui dobbiamo far lavorare la riflessione sulla zona grigia e sul nostro coinvolgimento in essa.
Concludo con un apparente paradosso, che non è un paradosso. Una strada tracciata contro la violenza sulle donne – non sto dicendo che è l’unica, ma che è “una” strada – è nel riconoscersi “queer”. Una persona che rifiuta per sé ogni etichetta di genere difficilmente scivolerà nella zona grigia: il suo percorso ideologico parte proprio dal rifiuto di ogni differenza gerarchica tra i sessi e i generi e dunque e mille miglia lontano da ogni rigurgito maschilista.
Back to Top