ArchivioAntropologicoApolito n°11 - 13.3.2023

Questo canto va ascoltato con devozione. 
Gli studiosi delle tradizioni popolari guarderebbero subito alla sua diffusione. Sanno bene che questi versi hanno fatto giri incessanti in Europa, dal nord al sud, intrecciandosi, trasformandosi, reinventandosi, ma sempre conservando il nucleo di storia di dolore per la morte ingrata di una giovinetta. E incrociando nomi prestigiosi, il grande Vincenzo Bellini su tutti, cui a lungo fu attribuita la famosissima versione musicale napoletana. Alcuni richiamano la sua parentela con la storia cinquecentesca della Baronessa di Carini, nobildonna siciliana uccisa per onore dal padre e dal marito. Roberto Leydi ne aveva notato l’ampia diffusione italiana, da Nord a Sud, Costantino Nigra nell’Ottocento l’aveva documentata come “la sposa morta” nel Nord Italia, e più o meno negli stessi anni Molinaro del Chiaro come “Fenesta ca lucivi” a Napoli. Pasolini la inserisce nel suo “Canzoniere italiano” e Roberto De Simone da canto suo, sostiene che il testo è in relazione a un’arcaica lamentazione funebre, che probabilmente poi si incrociò con la storia della Baronessa di Carini e con altre storie di tragiche morti giovanili. Ma sono versi presenti anche in tammorriate campane, su cui si balla. Io l’ho trovata persino in una versione di ninna nanna calabrese. Una dimostrazione chiara di come i versi di canti popolari si adattavano a funzioni diverse: ballata, canto narrativo, danza, lamento funebre, persino ninna nanna. 
Però, se si ascolta con devozione questa voce maschile che canta, forse si avverte qualcosa che non c’è negli studi, e non può esserci. Questa voce - maschile, ma poteva essere femminile - richiama altre voci, di altre epoche e altri luoghi, le quali hanno emozionato generazioni e generazioni di donne e di uomini che l’ascoltarono e forse cantarono in eco. E che si commossero, magari piansero, ma per lenimento al dolore, non per disperazione, poiché il canto – comunitario - era trasformazione in arte – comunitaria - delle loro personali angosce. Se questi versi addirittura vennero adattati in ninne nanne, è perché le donne che addormentavano i figli pensavano e forse sentivano dolori di abbandoni. Se spavaldamente si ballavano è forse perché con il ballo si esorcizzava l’angoscia. Insomma queste donne e questi uomini, un numero enorme, anonimi, sconosciuti, sprofondati nel nulla del tempo che scorre, una volta furono toccati da questi versi e queste musiche (diverse, trasformate, ricombinate), e noi abbiamo il privilegio di sentirne una risonanza nel nostro ascolto, che è del canto, ma anche dell’eco emotiva che esso suscitò in milioni di esseri umani. 
Il cantatore è Michele Monteleone. Era un pastore calabrese. Ed era zampognaro, suonatore di chitarra battente, cantatore. Venne con me negli Stati Uniti insieme ad altri musicisti popolari in un fantastico viaggio che avrò modo di rievocare in futuri numeri dell’Archivio. Mi voleva bene – ed io a lui – eravamo stati insieme nel viaggio e tornai a trovarlo in seguito in Calabria. La versione riportata in Facebook fu registrata in un albergo a Boston, nel luglio 1975. Il documento intero dura 14 minuti. In FB riporto tre frammenti di durata complessiva di 3 minuti. Ma invito tutti ad andare poi al canale Youtube. V’è la versione integrale e in più, successivamente un’altra versione (al minuto 14), cantata da Michele due anni dopo, quando andai a trovarlo a casa sua, a Rombiolo. È eseguita con una intonazione più bassa, ma conserva la sua drammaticità. Peraltro questa seconda versione ha un testo più ampio, che rende più comprensibile la narrazione (e che io riporto integralmente con didascalie, per l’ascolto completo) L’intero documento su YT dura circa 27 minuti. Personalmente ho sempre trovato questa voce e questi canti dotati di una forza magnetica che non fa staccare facilmente dall’ascolto
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