Vite Narrate n.5, 29.7.2024

All’indomani della fine della Seconda guerra mondiale, migliaia di soldati contadini tornarono alle loro case e alle loro famiglie. Trovarono fame nera, assenza di lavoro, la conferma di condizioni sociali disumane. Eppure c’erano migliaia di ettari di terra abbandonati e incolti di proprietari assenteisti, nel Sud soprattutto. La terra era là, avrebbe potuto sfamare famiglie e paesi interi, ma tutto era immobile. Allora i contadini si parlarono, andarono nelle Camere del lavoro, affollarono le piazze e infine decisero tutti insieme di andare a occupare le terre. Il ministro dell’Agricoltura nel secondo governo Badoglio, Fausto Gullo, calabrese comunista, aveva emesso un decreto già nel 1944, che consentiva a certe condizioni l’occupazione delle terre incolte. Ma quando cominciarono le occupazioni di terre, i latifondisti chiamarono i carabinieri, la lotta si fece aspra, di lì a qualche anno vi sarebbero stati contadini assassinati, a Portella della ginestra in Sicilia (quattordici, a maggio ’47), a Melissa in Calabria (tre, a ottobre ’49), a Torregrossa in Puglia (due, a novembre ’49), a Montescaglioso in Basilicata (uno, a dicembre ’49), a Celano in Abruzzo (due, ad aprile ’50). I contadini che avevano combattuto per l’Italia in una guerra distruttiva voluta da Mussolini, stavano trovando in risposta alle promesse ricevute, morte, carcere, sequestri, multe. Ma non si fermarono e alla fine riuscirono ad imporre una riforma agraria. Finalmente. Erano passati più di 150 anni dalle prime timide promesse di Ferdinando di Borbone. Non mantenute. Come quelle di Garibaldi, dei piemontesi, dei fascisti, gli uni dopo gli altri. Ora, finalmente con la loro lotta avevano ottenuto un risultato. Anche se la Riforma agraria messa in campo nel ’49 dal nuovo ministro democristiano dell’agricoltura, Antonio Segni, in gran parte fu fallimentare, si tradusse in un micidiale meccanismo di paradossale impoverimento, che riaprì la grande emigrazione, questa volta non transoceanica, ma europea.
In questo numero di “Vite Narrate”, il protagonista che ci riporta a quella fase storica è Francesco Vaccaro, contadino di Malvito, nel cosentino, che racconta della sua partecipazione alle occupazioni di terre. Anche se aveva fatto le elementari fino alla 4°, era segretario della Camera del lavoro e scriveva poesie. Di lotta. Di sogni di un mondo migliore.
La forma del suo racconto qui messa in rete è epica, il tono della sua voce è enfatico, “retorico”, forse qualcuno sorriderà ascoltandolo.
Ma bisognerebbe ascoltarlo entrando nel suo punto di vista. Quello del sentimento di orgoglio di fare parte di un movimento contadino che lottò per cambiare la storia e il destino di milioni di contadini poveri. Non conta come sia finita quella lotta, oggi nella memoria collettiva dovrebbe contare quell’entusiasmo, quell’orgoglio, quella disponibilità a battersi per un mondo migliore. E quella determinazione a lottare insieme per ritrovare dignità, orgoglio, forza in un movimento collettivo che si proponeva di raggiungere obiettivi di rigenerazione sociale, non personali.
Se ascoltiamo da tale punto di vista, quell’enfasi della voce e quella forma epica del racconto - altro che sorriderci sopra - dovrebbero diventare una lezione per il nostro presente addormentato.
Questo frammento di intervista autobiografica fa parte di un corpus di interviste svolte per una tesi di laurea in antropologia culturale nel 1976, a contadini di alcuni paesi del cosentino che parteciparono a occupazioni di terre. Oltre Malvito, San Marco Argentario, Tarsia, Fagnano Castello, Altomonte, Mottafollone, Roggiano Gravina, Santa Caterina Albanese, San Lorenzo del Vallo, Spezzano Albanese.
Voglio tornare su un punto: Vaccaro all’epoca dell’intervista aveva 59 anni, era nato nel ’17. Aveva la 4° elementare, ma scriveva poesie. Ne ascoltiamo due alla fine della sua testimonianza (la 2° è un solo frammento). Dopo il post dedicato la settimana scorsa a Peppino Viggiani di Avigliano, questa è un’altra testimonianza di come nel mondo popolare la vita – pur misera, pur difficile – non aveva senso se non nutrita di poesia, di musica, di arte in generale.