Antropologo a domicilio n°20 (5.6.2017)
“Ammazzateli tutti, buttateli a mare!”
“Salvateli, che qualcuno li accolga, io non posso, ne ho già accolto uno!”
Nella stessa pagina Facebook, due o tre post più giù, due tre post più su, la stessa persona scrive frasi come queste.
Una volta parlando di esseri umani, un’altra di animali. Una volta di profughi in mare, un’altra di cani o gatti. La stessa persona. Le stesse persone, perché in verità frasi del genere nella medesima pagina sono enormemente diffuse.

Non sono frasi finali di ragionamenti argomentati, no, è tutto là. Frasi lanciate per disprezzo verso umani e frasi lanciate per empatia verso animali. La stessa persona due pesi due misure.
Non voglio entrare in un discorso su superiorità/inferiorità umani/animali, su scale gerarchiche evolutive, morali, ecologiche, no. Occorrerebbe per questo richiamare argomenti complessi, con uno sguardo alla biologia, uno all’antropologia, poi alla filosofia e altro ancora. Ma non è il caso, perché quelle espressioni non coinvolgono ragionamenti di tale tipo. Sono urla, non argomenti. Urla di furore, urla di pietà. Né sono l’effetto di una scelta di appartenenza, comprensibile per quanto bizzarra: esco dall’umanità, voglio entrare a far parte di altre specie animali. No, non sono questo, perché tali persone — per ciò che se ne trae dalle loro pagine Facebook — sono perfettamenmte inserite in circoli di amicizie — di quelle proprie di Facebook ne vantano anche migliaia — e raccontano di incontri, di feste, di amicizie rinnovate, di piaceri di socialità umana. No, non hanno scelto l’animalità non umana rifiutando quella propria, appunto umana. Imprecano o pregano secondo umori momentanei, magari per effetto di contagio proprio da Facebook, i loro stati d’animo sono del tutto superficiali.
Esprimono però una devastante piega disumanizzante.

Alle scuole elementari ci raccontavano di Caligola che voleva far senatore il suo cavallo. Era un mito negativo che aveva l’obiettivo di suscitare disappunto per un imperatore che sovvertiva la gerarchia delle appartenenze nelle specie animali. In realtà le cose non andarono come ce le raccontavano, ma il senso del racconto era che un essere umano non può promuovere un animale a un rango che non gli appartiene. Ci insegnavano insomma che la separazione tra specie è insuperabile. La riflessione sul posto degli animali nel mondo umano è andata molto avanti rispetto allo schema semplice e primitivo implicito nel raccontino per bambini. C’è oggi un’altissima attenzione — ma forse ancora insufficente — per la “questione” animale ed è giusto così. Soprattutto la riflessione sugli allevamenti animali intensivi per consumo di carne sta coinvolgendo molti. Un libro come “Se niente importa. Perché mangiamo gli animali?” dello scrittore statunitense Jonathan Safran Foer, pubblicato in Italia nel 2010, è diventato un punto di riferimento importante. Ma c’è tanto altro. Nel 2012 è uscito “Trattato di biodiritto. La questione animale”, a cura di Luigi Lombardi Vallauri e Silvana Castiglione, un importante e denso libro di quasi mille pagine che raccoglie saggi di studiosi di varie discipline che fanno il punto su tali questioni. Ma, ripeto, non è questo dibattito che è chiamato in causa nelle urla citate all’inizio.

D’altra parte la scelta di privilegiare i cani o i gatti non necessariamente rivela un atteggiamento animalista: non so quanti di coloro che gridano “salvateli” a proposito di cuccioli di quegli animali è poi vegetariano o vegano. E d’altra parte spesso il cane o il gatto di casa sono privati della loro specificità, vengono umanizzati, cioè assunti nella sfera di umanità dei padroni. Paradossalmente “privilegiandoli” si nega la loro animalità specifica, e li si pone, fuori della loro stessa natura, all’interno della specie umana. Peraltro non di tutta la specie umana, ma di una parte, quella che costituisce il “Noi” di cui chi urla fa parte, e da cui è stata espulsa tutta quell’altra parte di cui si dice “buttateli a mare”. E questo è un meccanismo di inclusioni/esclusioni non lontano da quello delle SS che trattavano i loro animali come persone e mettevano persone nelle camere a gas.
Ma nel caso del nazismo, c’era una precisa ideologia che indottrinava gli adepti verso tale rivoluzione “contronatura”. L’ebreo nella camera a gas e il cane in casa propria rispecchiavano una visione consapevole del giusto/sbagliato, persino del bene/male, visione aberrante per la coscienza morale che è nata proprio da quelle tragedie, orribile, ma pur visione.

Nel nostro caso invece — “ammazzateli”, “salvateli” — non c’è nessuna consapevole visione del mondo. Cosa c’è allora? Io dico: un “pensiero non pensato”, cioè non personalmente pensato: un formulare le proprie espressioni in base a un mix di slogan di facile effetto, parole d’ordine politiche di bassissimo livello, becero senso comune e infine una umoralità mimetica, espressa in parole che arrivano sul proprio schermo e da lì ripartono senza nessun feedback riflessivo, anzi scompaiono persino come parole, trasformate nel nevrotico click del “like”.

A pensarci bene — nella misura in cui tali atteggiamenti rivelano un abbandono della riflessione, insieme a una emozionalità abortita (abortita poiché le emozioni pienamente umane sono marche della riflessione, non il contrario di essa) — queste urla esprimono più che una esclusione dall’umanità di quelli che si chiede di affogare, un’auto-esclusione dalla specie umana di chi urla, poichè l’essere umano è tale in quanto si emoziona e riflette insieme, prima, dopo, durante, ma insieme, nello stesso complesso processo, appunto “umano”.