
Antropologo a domicilio n°622 (30.5.2020)
Quando scrissi “Ritmi di festa”, avvertivo un sentimento di gioia. Potrà sembrare impropria la parola “gioia”, a proposito della scrittura di un saggio scientifico, ma solo a chi ha in mente lo stereotipo dello studioso ingrigito dalla polvere delle biblioteche e non invece la realtà dello studioso galvanizzato dalle scoperte — piccole o grandi — che compie studiando. Forse è proprio la gioia per la sua scrittura che fa di “Ritmi di festa” il libro tra i miei cui sono più affezionato. Per scriverlo, mi immersi in molti affascinanti filoni scientifici e non tutti nel campo dell’antropologia culturale. Mi occupai (da profano, diciamo così) di etnomusicologia, di neuroscienze, di etologia (gli scimpanzè, che scoperta! e i formidabili bonobo), di paleoantropologia e di linguistica. E di storia poi, e di letteratura delle catastrofi (che scoperta: il sentimento di festa in momenti drammatici o tragici come per esempio i lager). Senza dimenticare il meglio, il ricorso agli studi più recenti di psicologia dell’infanzia che pongono al centro di nuovissime riflessioni il rapporto bambino-madre (o caregiver: chi se ne prende cura). Mettere insieme i risultati di questi studi e riscriverli dentro un orizzonte antropologico, fu per me quotidiana fonte di sorpresa e di gioia, appunto. Perché mi dava la possibilità di fare affermazioni del genere: “Il mondo intero — anche questo è un punto di vista legittimo sul mondo — è quotidianamente un formicolio di miliardi di esseri viventi che si cercano per il piacere che ricevono e che danno a stare insieme”. Esseri viventi, non solo umani. Anche scimmie e cavalli e elefanti e cani e persino topi. E tanti altri. Mi era capitato di trovare più di una volta su pareti di uffici pubblici la famigerata frase: “ogni mattina in Africa, come sorge il sole, una gazzella….”. Pensando a questa frase tutta basata sulla lotta per la sopravvivenza, mi dava soddisfazione poter scrivere la frase appena riportata, di valore opposto. Non ne parliamo poi di quest‘altra:
“Venti minuti o mezz’ora dopo la nascita il bambino è già pronto a entrare in duetto con la madre, a farsi eco di lei, mostrando di avere un impulso innato, che coincide con la sua vita stessa, a cercare la madre o la persona che si prenderà cura di lui, per farsi specchio, subito, ed entrare in dialogo ritmico”.

Ecco, fu fonte di sorpresa e gioia scoprire che gli esseri umani hanno una musicalità intrinseca, che nasce con loro, e che a loro serve per comunicare, e infatti non vedono l’ora di poter “suonare” insieme agli altri (in un certo senso “cantando” e “danzando”. Cioè, semplicemente parlando e vivendo l’uno accanto all’altro). E dunque considerare la vita quotidiana come un’immensa pista da ballo e da canto. Soprattutto tra le persone che si vogliono bene. O che comunque sono in intimità. Era una conclusione cui arrivavo e che mi piaceva moltissimo. E poi considerare la festa — qualunque festeggiamento — come enfatizzazione di questa musicalità quotidiana, come una sua drammatizzazione (cioè messa in mostra). Per rinforzarla, ma prima di tutto perché semplicemente questa è la vita sociale, o meglio, la “sociabilità”: gli esseri umani non possono fare a meno di tanto in tanto di mostrarsi festosamente le forme dei legami che li uniscono. Che appunto sono forme ritmiche, musicali (e mimetiche).
Mi fermo qui. Questa non è una recensione al mio libro! Voglio però aggiungere che “Ritmi di festa” mi diede così tanto entusiasmo che una volta messa la parola fine, non riuscii a starmene fermo. E decisi allora di metterlo in scena, cioè di ricavarne un canovaccio teatrale con il quale sono andato in giro per l’Italia in più di centocinquanta eventi (certe volte accompagnato dai ritmi di Paolo Cimmino). E da questa esperienza nacque poi “antropologo a domicilio” di cui questa è la 62° newsletter. Ma basta così.

Tutto questo sproloquio, per sottolineare ciò che vado notando con disappunto: la radicale incomprensione che i politici in genere hanno di questa fondamentale dimensione antropologica degli esseri umani che governano. Per quanto riguarda l’Italia, a tutti i livelli — dal capo di governo al sindaco del più piccolo comune — nelle settimane della chiusura in casa per il coronavirus, sono fioccate le prescrizioni, che certe volte avevano un certo sapore sadico, a evitare i contatti: il famoso “distanziamento”. Che nel caso delle persone che sono morte nel più completo isolamento è stata la tortura finale della loro esistenza. No party, no movida, nessuna cerimonia, nessuna festa: imposto come fosse la norma più banale cui essere sottoposti. E invece era la più esiziale. Perché è stato come strappare un bambino dalle braccia della mamma. Certo il dolore di un bambino sottoposto a tale tortura è immediatamente evidente, tragico, insopportabile a vedersi. Ma anche ad un adulto, strappargli il legame sociale, sottoporlo a uno stile di vita in cui non possa più “danzare” e “cantare” con gli altri, è una tortura. Che appare di meno tale, ma non perché non lo sia, bensì perché scompare nei sottofondi della psiche, producendo però sofferenza che da qualche altra parte si esprimerà, esplodendo o anche solo estendendosi a trame quotidiane di una vita mancata, sottovissuta, minorizzata.
La “sociabilità” non è un lusso, non è l’ultimo anello, una volta garantiti tutti gli altri. È il fulcro della vita della specie umana. È come l’aria, come le proteine e i carboidrati, come la vita stessa. Certo, quando quest’ultima è attaccata da un nemico subdolo come il coronavirus, bisogna innanzitutto proteggerla. Ma almeno fosse chiaro, almeno questo, almeno fosse stato chiaro che sottrarre sociabilità è stato ridurre alla fame e alla sete degli alimenti simbolici fondativi dell’esistenza umana.
Cito ancora “Ritmi di festa”: “Nella concreta vita sociale non c’è un individuo astrattamente isolato, ma persone in relazioni «musicali»: perché non c’è un corpo singolo, ma corpi che sono in dialogo ritmico perenne. Noi «danziamo» e «cantiamo» la nostra vita insieme agli altri. Al di là di ogni consapevolezza e volontà. Siamo orchestrati da — e orchestriamo noi stessi — forme ritmico-musicali che scandiscono come metronomi invisibili il timing della nostra vita di relazione e che affondano nei nostri corpi biologici. Vive e costanti proprio nel nostro abituale e quotidiano stare insieme, ma intensificate in alcune condizioni e situazioni, nei rituali ad esempio, o nell’innamoramento e nell’amicizia, nella stupefacente interazione musicale — vera «protomusica» umana — tra madre e bambino. In certi tipi di lavoro di gruppo, poi. Infine nei festeggiamenti. Che non sono — è il momento di dirlo — le «feste» o solo quelle. Sono anche altro, sono l’occasione di un racconto ammaliante o di un canto cui non si resiste muti, un ritmo d’altri cui corrispondiamo, un grappolo di barzellette cui si ride a coro, persino una conversazione scoppiettante in un salotto o una chiacchierata «musicale» al bar, insomma ogni occasione in cui si formi una sia pur breve e volatile comunità ritmica e si enfatizzi il tratto musicale delle relazioni umane, e allora queste scorrono come se seguissero uno spartito musicale di parole e azioni conosciuto a memoria”.
Mi rendo conto del carico di responsabilità che la politica ha dovuto assumere in queste settimane. Non è stato facile governare in un momento di sbandamento pandemico. Però avrei un giudizio migliore dei nostri politici se non avessero trascurato tra i bisogni primari cui rispondere subito, quelli della musicalità comunicativa, della sociabilità. Quando avevo velocemente letto di un bando di reclutamento di sessantamila assistenti civici volontari da impiegare nei Comuni italiani, ne avevo tratto la piacevole impressione di una decisione governativa che in qualche modo riconoscesse la necessità di un ripristino ordinato sì, regolato sì, ma necessario, della sociabilità. Che delusione fu scoprire poi tutt’altro, cioè che questi volontari sarebbero stati adibiti al controllo del famigerato distanziamento. Una specie di polizia che spegnesse la musica.
Peggio che biopolitica, questa è tanatopolitica: avviamento cioè della specie umana alla sua morte. Lo scrittore francese Michel Houellebecq ha sostenuto in una recente intervista: “L’epidemia di coronavirus offre una magnifica ragion d’essere a questa pesante tendenza: una certa obsolescenza che sembra colpire le relazioni umane”. Se davvero questo è lo scenario futuro dell’umanità — ma io sono convinto che non lo sia — noi saremmo i testimoni degli ultimi giorni dell’umanità.

Ma io, insisto, penso che non sia così. Mi cito ancora, conclusivamente. “Apparteniamo a un mondo condiviso, di cui abbiamo incorporato musicalità, ritmi e temporalità comuni agli altri, e tutti i giorni riceviamo nutrimento e conferma del nostro stare al mondo tra altri come noi. Godiamo della socialità positiva. E avvertiamo una mancanza «fisica» quando ci è sottratta. La socialità quotidiana positiva, quella tela di relazioni punteggiata da affetti, cordialità, risate, chiacchiere e pettegolezzi, bevute e mangiate condivise, escursioni e passeggiate, ci è necessaria come l’aria, per poterci sentire a casa nel mondo”.