
Antropologo a domicilio n°75 (19.10.2021)
Forse è il tempo di tacere e di attendere un nuovo tempo, che mi augurò verrà, in cui ci si ascolti. Non si parli solo, ma ci si ascolti. Stiamo vivendo come in una piccola, soffocante e affollatissima camera, in cui siamo stretti l’uno addosso all’altro, ciascuno a voler dire la sua e nessuno ad ascoltare gli altri, anzi ciascuno ad alzare la voce per coprire quella degli altri. I social. E il chiasso sale, sale, sale e non si ferma mai, e nessuno sa veramente cosa dicono gli altri, ma alla fine neppure cosa dice lui stesso. Se si legge qua e là nei social con l’attenzione di un filologo, ci si rende conto di quanti dicano una cosa e più in là il contrario. Evidentemente più abili a farsi eco degli altri che a darsi voce pensata. E il chiasso è tale che non emerge quasi più nessuna parola, ma un clamore assordante, puro rumore.
Qualcuno dirà: se è il tempo di tacere, taci tu per primo. Sì, risponderei, ci sto pensando, però per adesso parlo davvero poco, una volta al mese al massimo.
E oggi voglio proprio parlare, poi ascolterò per il prossimo mese. Dal chiasso che sento in questa cameretta in cui siamo stretti gli uni addosso agli altri, emerge un vociare sconclusionato che accosta l’attuale momento di restrizioni di libertà e di diritti — che indubbiamente ci sono — con la dittatura fascista o peggio nazista. Sarebbe il caso, invece di parlare per dire cose del genere, di leggere. Scegliendo nella vastissima bibliografia che racconta quelle fasi buie della storia italiana ed europea. Noi siamo liberi di protestare e nessuno ci uccide per questo e neppure ci arresta, ci mette in galera o ci manda al confino.
Peggio ancora emerge un altro vociare che accosta il green pass al processo di stigmatizzazione, esclusione sociale e infine Shoah subito dagli ebrei (dagli omosessuali, dai comunisti, dai rom, dai “matti”).
Io credo che sia legittimo denunciare le restrizione di libertà e diritti a proposito delle norme anti-Covid, ma non accostarle a una qualche “dittatura”. Neppure nella variante “sanitaria”. Guardiamoci insieme a questo proposito un qualunque filmato della Corea del Nord, delle masse di uomini e donne raccolti che celebrano il dittatore: non sembrano corpi viventi, ma cloni digitalizzati. Quella sì, è una dittatura.
Possiamo in questo chiasso trovare un accordo minimo sul fatto che non siamo in un regime dittatoriale, il cui primo segno sarebbe la repressione violenta del dissenso, e invece da noi ce n’è tanto?
Se sì, allora passiamo a ragionare delle nostre attuali restrizioni. C’è una scelta politica alla loro base, è indubbio. Elaborata esplicitamente a partire da ragionamenti di ordine sanitario. Altri governi hanno fatto altre scelte. Ma tutte o quasi nel mondo concordanti nell’operazione di ridurre o eliminare la diffusione del virus.
Sono scuse per restringere le nostre libertà? Sono schermi dietro cui si nasconde un progetto politico di creare un regime che stravolga la Costituzione?
Se ne può discutere, si può essere su posizioni diverse, ci si può fronteggiare con argomenti contrapposti. Ma non è proprio questa possibilità un buon argomento per ritenere che non siamo alla vigilia di una svolta dittatoriale?
Altra richiesta di accordo minimo. Possiamo condividere la fiducia nelle fonti scientifiche? Personalmente mi ci affido. Certo, ragionevolmente. Però quelle accreditate. Non quelle più urlanti che trovo nei social. Perché? Perché ragionevolmente mi fido della scienza. Salvo prova contraria. Io non mi sognerei mai di denunziare in blocco tutti gli scienziati. Di dichiarare che tutte le migliaia di ricercatori che nel mondo sono impegnati nella ricerca perseguono un qualche scopo complottista nascosto. O che comunque dicano sciocchezze.
Se prendo un aereo è perché mi fido di loro.
Se prendo una medicina è perché mi fido di loro.
Se uso uno smarthpone, idem. E potrei continuare elencando quasi tutte le mie azioni quotidiane: accendere la luce, guidare un’auto, informarmi sulle previsioni del tempo….
E mi dico: che senso avrebbe se dopo aver chiuso una giornata compiendo centinaia di azioni fondate sulla fiducia di fatto nella scienza e negli scienziati, dichiarassi in un post serale (utilizzando peraltro un oggetto che viene dalla scienza) che non mi fido degli scienziati, che chissà quale complotto stanno tramando alle spalle dell’umanità, e che ognuno è scienziato di se stesso? Oppure mettessi un click di adesione a un post di qualcuno che si fida più della zia o del vicino di casa o del primo post sparato sui social (magari diffuso da hacker russi) che degli scienziati? Se così mi comportassi, giustamente chiunque potrebbe dirmi: “beh, allora vattene a vivere nei boschi senza acqua corrente, senza luce e senza il tuo caro smartphone, e se ti viene un male curati con l’aria.”
Torniamo dunque alle restrizioni di diritti e di libertà. Decise politicamente, dicevo, sulla base di pareri scientifici (non potrebbe essere diversamente: se le decidessero gli scienziati, allora saremmo davvero in una “dittatura sanitaria”). Sono chiare le motivazioni politiche alla base di queste restrizioni? Più o meno sì. Ma evidentemente non del tutto, se milioni di persone le sono ostili. Se sono in tanti a dubitare della logica che è dietro, se sono in tanti a sospettare che l’emergenza sanitaria sia un paravento dietro cui si intendono attaccare diritti e libertà, o foraggiare Big Pharma, evidentemente c’è un difetto di comunicazione da parte dei politici. Nonostante gli indubbi risultati positivi in termini di riduzione del contagio, di drastica diminuzione della mortalità, oltre che delle terapie intensive e dei ricoveri ospedalieri, nonostante la ripresa delle altre normali attività ospedaliere e sanitarie, potentemente ridotte nel primo anno di pandemia, c’è un difetto di comunicazione (e di fiducia nella politica).
Il difetto di comunicazione politica di cui sopra ha però una pesante ulteriore responsabilità. E non più solo comunicativa, ma inutilmente (o pericolosamente) punitiva in termini di diritti e di libertà. Questa sì politicamente dubbia e pericolosa.
Supponiamo che il governo avesse deciso l’obbligo vaccinale con apposita legge. Nessuna obiezione (logica) se poi avesse imposto che solo i vaccinati potessero avere libera circolazione. Ma poiché ha lasciato libertà di scelta, ha di conseguenza (logicamente) considerato tutti sullo stesso piano: i vaccinati e i non vaccinati. Come garantire allora una vita sociale tranquilla se i non vaccinati sono tanti?
Il governo ha scelto l’obbligo del green pass (perché poi chiamarlo così? ma è un altro discorso ancora). Ok. Però questo non può tradursi in un’azione che mette i cittadini su piani diversi: piano A quelli vaccinati, piano B quelli non vaccinati. Ma no — mi si dirà — i non vaccinati possono accedere alla vita sociale tramite tampone. È vero. Ma perché devono pagarlo? Il vaccino è gratis. Se al cittadino è data libertà di vaccinarsi o non vaccinarsi, tutti i cittadini devono rimanere sullo stesso piano prima e dopo la scelta. Altrimenti il diritto di scelta è fasullo e si trasforma in una tassa per chi fa la scelta B. Se vaccini gratis, anche tamponi gratis. Così tutti sullo stesso piano. Vedo con un certo sconcerto che molti, anche tra i politici, dicono: i soldi per dare i tamponi gratis possono essere impiegati per altri scopi. Giusto. Ma questo vale anche per i vaccini. Il governo ha fatto una scelta di protezione sanitaria e ha investito risorse sulla protezione sanitaria tramite vaccino. Evidentemente togliendole da altri obiettivi. Perché questo ragionamento non può valere anche per i tamponi? Se i cittadini sono davvero liberi di vaccinarsi o non vaccinarsi, devono essere messi sullo stesso piano. Altrimenti siamo in presenza di un sotterfugio per rendere obbligatorio il vaccino colpendo le tasche. Con una mano si dà un diritto di scelta, con l’altra lo si nega o rende solo apparentemente garantito. E questo non è costituzionalmente corretto. Non aprirà un regime dittatoriale, ma neppure avvicinerà i cittadini alle istituzioni.