L'Archivio n°32 - 6.5.2024

La Madonna delle galline a Pagani, la prima domenica dopo Pasqua, è una festa centrale nell’agro nocerino-sarnese e nei paesi vesuviani. Con un’eco forte nel resto del napoletano e del salernitano. Nessuno dei suonatori e dei cantatori di quei territori resiste al richiamo di questa festa, sia nei giorni di preparazione, che nella sua esplosione la domenica, quando decine di migliaia di persone si concentrano per la processione del mattino-pomeriggio e per i suoni e i balli del pomeriggio-notte, davanti ai “toselli”, allestiti nei cortili e nei rioni, o nella villa comunale al centro del paese. I significati religiosi tradizionali, che non si possono trascurare, sono comunque secondari nei confronti del grande richiamo di socialità festiva, musicale, coreutica e culinaria, che coinvolge l’enorme folla dei partecipanti.
Una festa di origine contadina, senza alcun dubbio. Come tante, ma con una sua forte impronta locale. Però anche il passato contadino è oggi secondario, nei confronti di un altro fenomeno che prende sempre più piede. 
E cioè la fortissima impronta giovanile che questa festa ha acquisito, soprattutto la sera.
La scena che apre il video, con la piazza nel ballo, è stupefacente se confrontata con quello di qualche decennio fa: i giovani che si vedono sono nipoti e pronipoti di contadini (la maggior parte degli abitanti di quei territori fino a 50-60 anni fa), ma ormai sono indistinguibili dai ragazzi di altrove per fogge del vestire, posture, corpi addobbati, sguardi e relazioni. Cioè sono metropolitani. Danzano al ritmo dei canti sulla tammorra e suonano le castagnette, ma i loro corpi, le loro fogge, i loro atteggiamenti sono quelli che si trovano in numerose piazze e angoli delle movide metropolitane. E sono loro i nuovi padroni della festa, sono le loro trasformazioni che dettano il futuro della festa.
 
C’è un aspetto nella seconda parte del video che è una spia di un particolare mutamento che la forte presenza giovanile comporta nella festa. Siamo nella villa, un gruppo di cantatori e suonatori fa musica per il ballo dei presenti. È uno dei vari gruppi che fanno cerchio. Tre generazioni insieme. La prima è rappresentata dall’uomo con il basco in testa, la seconda dagli altri cantatori e dal suonatore di tammorra, la terza dal ragazzo che canta. Quest’ultimo marca una differenza che non sfugge se si osserva il resto del gruppo: mentre gli altri compartecipano visivamente alle performance di ciascuno, il ragazzo dialoga con il suo smartphone e non mostra se non raramente una compartecipazione ritmica ed empatica agli altri. Lui sta là insieme agli altri, ma sta anche altrove. L’abitudine all’isolamento nel dialogo sé-smartphone mostra con evidenza i suoi effetti: sembra che il ragazzo sia estraneo all’aspetto comunitario della festa e dunque vi partecipi solo in parte. Il suo comportamento pone una grave domanda sul futuro di questa festa. Non nel senso di un abbandono, ma del tipo di partecipazione: come in tutti gli eventi giovanili, la forza del rapporto solitario con lo smartphone rende il livello di partecipazione comunitaria molto diverso, se non minore, di quello delle epoche precedenti. 
POLEMICA PER L’ULTIMO POST DELL’ANTROPOLOGO A DOMICILIO
L’Archivio n.32
Questo video è una versione monca del video ieri pubblicato.
La mamma del ragazzo che compariva nel video originario e su cui avevo costruito una mia interpretazione della nuova presenza del digitale nella festa della Madonna delle galline ha protestato poiché ha ritenuto violata la “riservatezza” del ragazzo. Ho immediatamente provveduto alla rimozione della parte del video relativa perché in verità non ho nessuna intenzione nel mio lavoro di ferire un legittimo sentimento materno. Però ho anche scritto qualcosa per difendere la mia posizione e spiegare che non ho voluto in nessun modo offendere il ragazzo. Chi ha la pazienza di leggerlo, lo trova di seguito, chi pensa di avere già dato troppo tempo alla mia riflessione sull’argomento, può tranquillamente passare oltre.
In particolare qui segue la lettera di una persona forse collegata alla mamma, che mi aveva scritto su Youtube accusandomi di avere parlato di “indifferenza” del ragazzo, e la mia risposta.
Gentile antropologo a domicilio. Quanto alle sue interpretazioni riguardo il comportamento del "ragazzo" (dal min 2.46), mi spiace demolire quella che le sarà sembrata una brillante interpretazione. Se avesse studiato le modalità con le quali queste tradizioni si sono salvate dall'oblio, saprebbe che è stato grazie alla curiosità e all'interesse di ragazzi come questo e che lo hanno fatto con la modalità della registrazione, allora con i mangianastri, oggi con gli smartphone, e quella che lei confonde maldestramente con indifferenza è il suo modo di concentrarsi per capire e memorizzare le parole per avere modo di collegarsi alla loro interazione. Chi come lui non ha avuto la fortuna di nascere all'Interno di queste tradizioni deve poterle carpire. Un suggerimento mi sento di darglielo oltre che abbandonare l'antropologia, verificare che le persone oggetto dei suoi studi siano maggiorenni e di non essere sgamato dalle madri alle quali non ha chiesto il permesso per pubblicare l'immagine del figliolo.
Gentile *** la ringrazio per il suo contributo. Lei merita una risposta articolata: di merito, di metodo e personale.
Io non ho parlato di “indifferenza” del ragazzo, non troverà da nessuna parte questo termine. Se ha la pazienza di tornare sulla mia “interpretazione”, vedrà che indico un’altra questione: la crisi dell’”accordo” comunitario che è fatto di gesti, sguardi, ritmi, movimenti del corpo e non solo di parole del canto. In fondo io ho scoperto l’acqua calda: una notevole mole di studi mette in luce le nuove dimensioni di “solitudine” che l’uso degli smartphone produce soprattutto nelle nuove generazioni. Io ho voluto semplicemente indicare che tali questioni oggi riguardano anche le “tradizioni”, di cui emblematicamente ho presentato il caso della Madonna delle galline. Personalmente apprezzo il ragazzo che entra nel canto, ci mancherebbe. Segnalo soltanto che la modalità con cui lo fa non è espressione del “linguaggio della tradizione”, che era fisico, concreto e coinvolgeva la compresenza totale dei protagonisti: se lei ci fa caso, gli altri non si limitano a cantare quando è il loro turno, ma quasi danzano mentre il cantatore esegue il canto, e queste modalità erano essenziali nel linguaggio espressivo della festa. Forse non lo saranno più in futuro, chi può esserne sicuro, però questo era il mio obiettivo: focalizzare una questione, come si dice “problematizzarla”, cioè renderla oggetto di riflessione. Poi il futuro certo che non è nella mia testa (né nella sua, peraltro).
In passato la trasmissione culturale è in gran parte avvenuta entro le comunità, attraverso apprendimenti informali (cioè non scolastici), attraverso imitazioni intergenerazionali e per soglie di accettazione da parte degli anziani della comunità. Il video che ho messo in rete mostra che l’apprendimento oggi sta cambiando, si sta formalizzando (sto per ipotesi accettando la sua interpretazione che il ragazzo leggesse), si sta individualizzando, cioè sta rompendo l’accordo comunitario di base e implicito. Questo non cancella il lodevole impegno del ragazzo, il suo scrupolo a conservare la memoria e quello di altri ragazzi come lui: ma cosa ne direbbe se tra qualche anno nella Villa tutti i cantatori cantassero leggendo i testi sullo smartphone?
Lei scrive: “Chi come lui non ha avuto la fortuna di nascere all'interno di queste tradizioni deve poterle carpire.” Conosce il ragazzo? Sarebbe allora interessante chiedere a lui stesso cosa ne pensa della mia interpretazione e se è vero che stesse leggendo un testo. Però (e questo apre un’altra questione), lei pensa che non vi sia differenza tra portatori della tradizione che cantano come parlano, cioè con una memoria “fisica” viva, e chi deve leggere scolasticamente per ripetere dei versi che non ricorda a memoria? E dove se ne va in questo modo tutto il campo delle “improvvisazioni”, così importanti nel linguaggio popolare del canto, che consentono l’elaborazione di parole-versi nuovi, contingenti, legati al contesto e alla situazione? Ha modo di notare lo sguardo tra il cantatore che a un certo punto canta del “maestro” e il suonatore della tammorra? Le confesserò che nonostante lei pensi che io non abbia studiato queste tradizioni, sono sul campo da decenni e dunque ho avuto modo di studiare a fondo le questioni della “tradizione” e delle sue trasformazioni. Sono “antropologo a domicilio”, ma non sono antropologo improvvisato. Ho la mia carriera, il mio curriculum e le mie competenze riconosciute internazionalmente. Non lo dico per spararmi pose, glielo giuro, ma per segnalarle che mi sono dato questa etichetta di antropologo a domicilio perché penso che sia giusto che l’antropologia esca dalle aule e dalle biblioteche e vada “nei luoghi in cui ci si incontra e si può riflettere, discutere, confrontare le proprie idee sul mondo umano con quelle che questo sapere fornisce sulla base di studi e ricerche. Ecco perché l’antropologo deve andare “a domicilio” degli esseri umani, e non limitarsi ad attendere che vengano all’università o leggano i suoi libri”.
Dunque non abbandonerò l’antropologia come lei mi suggerisce, l’antropologia è la mia vita stessa.
Infine, tralascio il tono leggermente ostile delle sue parole, si sarà sentita offesa nel suo sentimento identitario: non è la prima volta che mi succede di offendere involontariamente qualcuno per il fatto stesso che metto in discussione il sentimento identitario. L’antropologia nasce come “sguardo da lontano” e sarebbe il caso che anche chi studia il proprio mondo culturale faccia uno sforzo di distanziamento, altrimenti confonderà le sue emozioni con la conoscenza.
P.S.
Ho dovuto fronteggiare anche la mamma del ragazzo, forse allertata da lei, offesa dal video. Mi permetto di aggiungerle qualche nota che ho scritto a lei:
“Non metto in dubbio la passione di suo figlio, ci mancherebbe, non lo conosco, ma sono sicuro che in base a ciò che lei dichiara avrà molta passione per la “tradizione”. Io ponevo un interrogativo sul futuro della festa e del linguaggio della festa, una volta che entra massicciamente in scena il digitale. In fondo ho scoperto l’acqua calda: una notevole mole di studi mette in luce le nuove dimensioni di “isolamento”, “crisi della socialità”, “caduta del dialogo”, “solitudine” che l’uso degli smartphone produce soprattutto nelle nuove generazioni. Ho voluto semplicemente indicare che tali questioni oggi riguardano anche le “tradizioni”, di cui emblematicamente ho presentato il caso della Madonna delle galline. Se vogliamo riflettere insieme, il linguaggio della cosiddetta tradizione non è solo verbale, ma coinvolge i corpi nella loro interezza: non è un linguaggio individuale ma corale, non si limita alla performance del singolo, ma riguarda tutti gli aspetti della comunicazione collettiva. Che è ritmica, è musicale e non solo negli aspetti strettamente verbali del canto, ma nel comportamento complessivo dei presenti all’evento. Forse a suo figlio, che ama così tanto la “tradizione” come lei afferma, andrebbe fatto presente che oltre che memorizzare sul cellulare i testi delle canzoni, deve apprendere dai più esperti cantatori tutta la gamma di atteggiamenti e comportamenti coreutico-musicali che fanno la sostanza della tammorriata: dagli sguardi, ai gesti, ai sorrisi alle complicità dei feedback di risposta al singolo cantore. Questo è il “linguaggio della tradizione” e non solo le parole dei canti. Se la tammorriata diventa una serie di esecuzioni individuali non credo che vi sia un futuro diverso dal festival di una canzone. La Villa della Madonna delle galline offre ancora oggi un raro esempio di linguaggio della tradizione molto vivo proprio perché non si è lasciata sedurre dalla dimensione di “palco” che vede divisi artisti e pubblico, e perché conserva l’orizzontalità comunitaria del mondo contadino in cui i suonatori e cantatori fanno cerchio tra di loro proprio per esaltare il linguaggio dei corpi che li coinvolge durante l’evento: ed è proprio per questo che suo figlio ha potuto cantare anche senza far parte del gruppo. Suo figlio è doppiamente fortunato, perché ha la passione per queste cose e perché le trova ancora vive nella loro forza tradizionale. Però credo che a lui farebbe anche piacere apprendere che c’è ancora da apprendere al di là dei testi delle canzoni. Ciò che io ho offerto è una riflessione intorno ad alcune domande che ho posto sulla potenza del digitale oggi tra le nuove generazioni.”
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