Antropologo a domicilio n°43 (30.10.2018)

Vi sono parole che sarebbe meglio usare il meno possibile. Una fra tutte: “identità”. Intendo “identità collettiva”, non quella individuale. Perché i rischi di fraintendimento della realtà che sono nel suo uso, superano e di gran lunga gli eventuali — scarsi — vantaggi. Soprattutto quando l’identità viene usata come se fosse una “cosa” che c’è, concreta e reale, un oggetto della realtà che può essere attaccato e difeso.
L’antropologia contemporanea — e non solo quella — ha dedicato molti studi importanti al tema dell’identità. Quella italiana in particolare. Fondamentali sono gli studi dell’antropologo Francesco Remotti, che ha scritto due libri molto belli, profondi (“Contro l’identità” e “L’ossessione identitaria”, entrambi edizioni Laterza). E chiarissimi nella lettura. Un altro altrettanto bello lo aveva scritto il compianto Ugo Fabietti (“L’identità etnica”, edizione Carocci)
Ma qui non farò riferimento a questi libri, bensì a un ragionamento di senso comune. Parto da un’affermazione di un Ministro della nostra repubblica, che teme che le “nostre identità” (?) possano “diluirsi” a causa della presenza di migranti, questo è il termine usato riportato dai giornali.
Diluire? Si diluisce qualcosa di solido. E in che senso le identità sarebbero solide? Nel senso che non si plasmano e non si modificano? Cioè non mutano come muta tutto ciò che è nella storia? sono immobili? sono realtà fuori della storia, cioè astoriche? ma allora cosa sono, “spirito”? “essenze” che avrebbero avuto inizio prima e fuori della storia?
Andando avanti con tali domande, è chiaro che arriveremmo all’assurdo.
C’è una seconda questione. Da dove viene questo “solido” dell’identità? Dal passato? E nel nostro caso, comprende tutto ciò che è italiano? Cioè Dante, Michelangelo, Verdi, gli spaghetti? e va bene, tutti d’accordo. Ma anche il Fascismo, l’uso del gas su popolazioni civili nelle guerre coloniali, la subalternità femminile delle nostre ave, la Mafia e la Camorra sono “identità italiana”?
Sono sicuro che il Ministro terrebbe fuori queste cose, almeno le ultime due. Ma allora questo “solido” non è così solido se si frantuma, non è un “oggetto” ereditario concreto e reale consegnato dal passato al presente, come una “cosa” che passa da padre a figlio. Se si può scegliere cosa conservare e cosa abbandonare, più che essere un lascito del passato, è un progetto politico che, a partire dal passato, guarda a ciò che si vuole essere nel presente e nel futuro.
Terza questione. Anzi domanda: quando si dice identità italiana e poi a seguire si proclama “prima gli italiani”, da questa costellazione vengono tenuti fuori gli italiani pedofili, gli italiani mafiosi, gli italiani che distruggono le coste, gli italiani che timbrano cartellini in ufficio e poi vanno via, gli italiani che inquinano, truffano, uccidono e via dicendo? E dove li metteremmo questi italiani in cui non ci riconosciamo? nonostante tutto davanti agli “altri”, cioè ai non-italiani, che non sono pedofili, mafiosi, ecc.? Cioè meglio un italiano pur se pedofilo piuttosto che un “extracomunitario” (!) non pedofilo? Ma no! Credo che più sensatamente collocheremmo gli italiani di cui sopra all’ultimo posto, insieme ai pedofili, mafiosi, eccetera non-italiani. Ma allora per caso il ragionamento sensato non è quello di affermare “prima gli onesti” e poi gli altri? Prima le persone di buona volontà e poi gli altri? Prima le persone che rispettano le leggi e poi gli altri? E così via?
Questo, senza scomodare i bei libri di Remotti e Fabietti. Che però andrebbero scomodati, se si vogliono allargare gli orizzonti di comprensione di questi temi. E ricordando due temi centrali di quei libri: le identità rocciose — quelle che si presentano come fossero solide — sono identità aggressive, che la storia insegna possono diventare omidice. E poi: un’identità si costruisce attraverso un processo di differenziazione dall’alterità. Ma tale processo comprende anche un incorporazione nell’identità di elementi di alterità. Salvo che poi lo si dimentica.
Come è evidente nel caso del nostro Ministro leghista che ora parla di identità italiana, dimenticando che in essa ha solo ora e da poco incorporato coloro che fino a qualche anno fa per i leghisti (“padani”) erano “altri”, estranei alla loro identità: i meridionali. Ma io mi domando: può un Ministro parlare di identità “solida” mentre proprio la giravolta ideologica del leghismo mostra il mutamento “liquido” della sua nozione di identità italiana?
Insisto: conviene usare il meno possibile o per niente il termine “identità”. E allora come possiamo esprimere ciò che questo termine nel bene e nel male ci consente comunque di significare? Propongo di sostituire nei nostri discorsi questa parola con un’alternativa meno miope (e pericolosa): “senso di appartenenza”. Che tra i tanti vantaggi ha quello di farci scegliere di chi e di cosa far “parte”. E allora potremo prima di tutto sentirci appartenenti alla cultura che ha generato Dante, Michelangelo, Verdi e gli spaghetti. E va bene. Ma non saremmo costretti a sentirci appartenenti alla Mafia e alla Camorra. Semplicemente, non sentiamo di appartenere a questo “lascito” della storia italiana tuttora presente. In sovrappiù potremmo aggiungere tutto ciò che ci piace, entusiasma, gusta, riguarda fuori dai nostri confini territoriali. Anche se non è italiano nel senso “solido” del termine: la grande cultura europea per esempio, quella dei diritti universali, o perché no, l’hip hop o il movimento femminista o quello ecologico o che ne so, e tanto altro in giro per il mondo e tra i popoli. E in ultima analisi, potremmo aggiungere l’intera specie umana. Senso di appartenere innanzitutto a questa.
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