ArchivioAntropologicoApolito n°14 - 6.4.2023

Una volta all’anno c’era un pianto collettivo, doveva esserci, era incluso in un rito. Poiché il calendario segnava la Morte di Cristo. E tutti dovevano piangere. Sia pure come per una messa in scena. Sia pure come per finta teatrale. 
Ma non era finto il ritmo condiviso di emozioni che in questo modo si dava alla comunità: dolore seguito dalla gioia, Morte seguita dalla Resurrezione. Per secoli questo ritmo ha regolato la vita emotiva delle comunità contadine. Ma la comunità non era mai un blocco unico. Al suo interno c’erano differenze. Per esempio tra uomini e donne. 
I primi occupavano il centro della scena: congreghe in abiti solenni, canti polifonici, recite della Passione, processioni. Gli uomini avevano un ruolo centrale nel teatro rituale della Passione. E ciò che li riguardava era molto preciso, squadrato, strutturato. Era l’ufficialità del rito. Per parte loro, le donne seguivano, guardavano, facevano massa, qua e là venivano incluse, ma sempre ai margini, sempre in maniera convulsa, disordinata. Erano tollerate, non più di questo, come in tutte le manifestazioni pubbliche. 
Però trovavano modo di starci. Per esempio cantavano. Canti femminili, riservati a loro. Con i quali elaboravano una propria intimità emozionale, non pubblica e non ufficiale, quasi strappata al tempo ufficiale, una intimità tutta femminile per cantare il dolore della Mamma che perde il Figlio. Una intimità complice, in cui ogni donna che aveva perso un figlio cantava il suo personale dolore, partecipando al canto del dolore della Madonna. 
Non è facile cogliere dentro la massiccia cornice di rituali e cerimonie ufficiali della Settimana santa questo ambito tutto femminile, perché è nascosto o meglio è camuffato. Sembra che esso sia solo un pezzo del cordoglio ufficiale della Chiesa e del Popolo di Dio per la morte di Gesù. No, c’è dell’altro, mascherato, c’è un dolore autentico delle mamme per i figli partiti per le guerre e mai tornati, per quelli uccisi nelle tragedie di paese, per quelli emigrati e scomparsi, per tutti quelli morti negli innumerevoli casi in cui alla mamma amputata del figlio non restava che indossare l’abito e lo scialle neri per il resto della vita. E tornare a piangere il proprio figlio nella Settimana santa, identificandosi con il dolore della Madonna. E questo modo femminile di piangere la Morte, la toglieva dall’ufficialità un po’ finta, la rendeva concreta, quasi palpabile. 
Questo canto polifonico a tre voci è di località incerta, non posso dire altro, poiché nella parte del mio archivio cartaceo che fu mandato in discarica per decisione insensata di un miope e forse dispettoso Direttore di Dipartimento, quando mi trasferii dall’università di Salerno a quella di Roma 3, c’erano anche i dati di questa registrazione. A memoria mi pare fosse fatta in Calabria nei primi anni ’80, ma non ne sono sicuro (i nomi delle cantatrici sono stati salvati nel corpo stesso della registrazione). Ma è un documento così potente che merita di essere pubblicato anche se privo di dati identificativi. 
In esso vi sono elementi di vita quotidiana: innanzitutto questa Madonna parla come una qualunque donna che incontra un compaesano per strada, “che hai neh Maria?” le chiede san Pietro e lei risponde, “Che voglio ave’, neh santu Pietro mio”, che è proprio un modo conversazionale che si può sentire per le strade del Sud negli incontri casuali. La Madonna e Gesù sono portati in strada in mezzo agli altri paesani, sono ravvicinati alle donne e agli uomini vivi, familiarizzati: sembra solo un effetto involontario della lingua colloquiale, in realtà esprime la vicinanza delle donne al dolore di una Donna. Gesù e la Madonna non sono le figure ieratiche ufficiali, lontane, remote: sono “paesani”. Per esempio quel: “Ghiettancillo ‘nu strillente voce” (gettagli un grido) e vedrai che tuo figlio ti risponderà, richiama le mamme che urlano per strada, chiamando a raccolta i figli, ché si ritirino a casa. E i figli rispondono: “ma’, tengo fame, tengo sete”, e anche Gesù sente e risponde e dice che ha sete, e lei replica – siamo nella Passione - che si sono seccati pozzi e fontane. Infine quel fulminante finale, quando alla notizia della morte di Gesù, la Madonna “ier'a la l'erta e carive morta 'nderra” (era in piedi e cadeva morta in terra). Un dolore scomposto, che ricorda più quello delle antiche lamentatrici che quello spiritualizzato della Madonna ufficiale, (Ernesto de Martino ne aveva lungamente parlato nelle pagine finali di “Morte e pianto rituale”). 
(Poi nel documento intero del canto, in Youtube, c’è la maledizione ai carnefici di Cristo, che riprende le antiche accuse ufficiali agli ebrei e ufficiose agli “zingari”. Ma di questo nel prossimo post) 
Una parola sulla lingua (dialetto). È di difficile trascrizione (a meno che non si voglia complicarla con l’alfabeto fonetico internazionale), ma è talmente bella e ricca di suoni che non si può che ammirarla ascoltandola. 
Su Facebook tre frammenti del canto: meno di 3 minuti Il documento intero è su Youtube: 6’49’’ https://youtu.be/_cYL9Bnf2kw In Facebook tre frammenti fusi insieme, meno di 3 minuti. In Youtube l'intero documento, 6'49''
Back to Top