
Antropologo a domicilio n°22 (26.7.2017)
Qualche settimana fa duecentoventimila persone si sono raccolte per un concerto rock. A Modena, per Vasco Rossi. Appartenevano a tre generazioni diverse, forse quattro. Cominciando dal cantante che ha sessantacinque anni e finendo a qualche bambino portato sulle spalle da genitori — o nonni — che non volevano perdersi il concerto. E stavano insieme senza fastidio. Dicono che ha battuto tutti i record di pubblico di un concerto singolo. Io non c’ero, l’ho visto alla tv, ma sono stato un buon partecipante a vari concerti per poterne parlare come se fossi stato là presente. Il concerto rock non è semplicemente uno spettacolo, è qualcosa in più. È quanto di più vicino vi sia a un rito religioso fuori della religione. Anche più della partita di calcio, che pure va messa tra i grandi fenomeni “religiosi” delle società di massa. Ma nella partita di calcio la partecipazione rituale è frantumata. C’è il gioco, che è una parte dell’evento, e c’è il comportamento rituale degli ultrà, che è un’altra parte. Le due parti non sempre dialogano, nel senso che il rito che svolgono gli ultrà non è del tutto influenzato dall’andamento della partita, ma segue una sua dinamica interna di cori, slogan, striscioni.

Il concerto rock invece è un tutto. Non vi sono parti staccate, è un tutto intorno alla musica. Al concerto di Vasco Rossi cantavano in decine di migliaia, Vasco sul palco, gli altri giù. Non era una semplice esibizione di un artista, era una messa in scena di una grande organismo composto da duecentoventimila persone che smarrivano i confini del sé, a cominciare da quelli del proprio corpo, ed entravano in un corpo collettivo, gigantesco, seducente, accogliente, potente. Ciò che è impressionante in ogni concerto — in quello di Vasco Rossi in una misura impareggiabile — è che vivere dentro quel gigantesco corpo ti fa perdere ogni sentimento di solitudine e moltiplica il tuo godimento nelle migliaia di corpi che godono. Normalmente la musica la puoi sentire da solo, nelle cuffie, a casa, e la cerchi perché ti piace. Ma il godimento del concerto è tutt’altra cosa, perché non è solo della musica, ma deriva dal godimento che esprimono i corpi vicini, quelli concretamente percepibili, che si vedono, si possono toccare, fanno parte di un cerchio fisicamente concreto dentro il quale c’è il tuo godimento. Questo fenomeno che coinvolge piacere e sentimento di umanità — “abbondanza di umanità” — è davvero strano, unico, non esiste una parola ad hoc che possa definirlo. C’è una scrittrice femminista e attivista politica americana, Barbara Ehrenreich, che scrive in proposito: «abbiamo un ricco linguaggio per descrivere le emozioni disegnate tra una persona e un’altra — dalla più fugace attrazione sessuale, alla dissoluzione amorosa dell’ego, fino alla forza distruttiva dell’ossessione. Quello che manca è un modo per descrivere e comprendere l’“amore” che può esistere tra decine di persone allo stesso tempo». “Amore” è una parola impegnativa, io preferisco parlare di “godimento”, che richiama qualcosa di più superficiale (ma non per questo futile o poco intenso), cioè che ti chiede meno responsabilizzazione. Perché termina subito dopo il concerto. Anzi la caratteristica del concerto è che quel pathos della totalità scompare al termine e ci si ritrova individui soli. Anche più di prima. Però durante il concerto ciò che avviene è potente, di una potenza imparagonabile con l’ordinaria vita quotidiana. Gesti, canti, movimenti di ciascuno sono dentro un tempo musicale condiviso, cioè sono cadenze ritmiche e simboliche in cui tutti si ritrovano. Ciascuno è se stesso, ma non chiuso in se stesso, bensì dentro un Noi che si carica di una potenza che sembra abbracciare il cosmo intero.
È proprio questa la ragione per cui nelle società di massa i rituali di tale tipo sono stati strumenti — e lo sono ancora — di stategie politiche per ottenere consenso e conquistare potere. Esemplari le dittature nazifasciste del Novecento.

Però, quando interviene, la politica trasforma radicalmente questi rituali. Nelle società di massa, per definizione liquide, i concerti rock, le partite di calcio, non sono in grado di costruire realtà stabili, di dare struttura permanente. Bruciano i loro effetti mentre avvengono e non conservano niente. La politica invece dà ai suoi rituali una struttura, li rende stabili, strumenti fissi. E in questo modo li ingessa. Li fa “regola” di comportamento e di sentimento. “Devi” fare queste cose, “devi” sentire queste cose. Buona parte del fascino di un concerto invece è che in esso ciascuno può dare la propria personale modulazione alla musicalità collettiva. I corpi e le facce, al concerto di Vasco Rossi, avevano in comune solo una certa aria di famiglia, perché poi ciascuno metteva in scena la sua “storia”. C’era una coppia che si consumava di baci appassionati, un’altra poco più in là si dondolava a ritmo tenendosi per le braccia. Una terza si guardava negli occhi intensamente, come a rivivere nel proprio spazio “intimo” memorie proprie, o a farsi nuove promesse. C’erano persone singole che cantavano come se fossero nel coro sul palco, altre invece che sorridevano scuotendo la testa per il riconoscimento di una canzone. C’era chi era piazzato viso a viso con i vicini, godendo dell’accordo mimico a specchio, e chi invece, eccentrico, faceva di tutto per far notare la sua singolarità. Insomma, erano tutti insieme nello stesso rito, ma tutti “liberi” di modulare la propria diversità. Come in un gigantesco concerto jazz, in cui improvvisazione e cadenza condivisa sono strettamente intrecciati.
Nel rituale politico dittatoriale invece, proprio in virtù della sua progressiva stabilizzazione, i singoli sono spinti a diventare cloni, stesse posture, stesse emozioni, nessuno fuori “regola”.

Nonostante il rischio che diventino preda di strategie politiche, i rituali di massa non vanno demonizzati. Perchè essi si fondano su una dimensione ineliminabile dell’Homo sapiens, che è al tempo stesso animale sociale e ritmico. E per questo gode — almeno di tanto in tanto —della presenza degli altri. E ne gode in modo ritmico. Questi rituali alimentano un senso di umanità di base.
Pur tra tutte le difficoltà del vivere contemporaneo, pur dentro il cappio di crisi, scomparsa di orizzonti di progetto o almeno di speranza, e depressione collettiva, di tanto in tanto sullo sfondo grigio della vita quotidiana spuntano come fiori colorati occasioni di esaltazione e di gioia come quelli del concerto di Vasco Rossi. Essi appartengono a quel piacere dell’esistenza di cui difficilmente ci si può privare.
Poi — certo — dobbiamo porci le domande politiche intorno a questi eventi: se l’illusione di un Noi di massa del concerto (o della partita), non allontani piuttosto che avvicinare le esperienze di Noi concreti e stabili (cioè quei Noi possibili, fatti di piccola scala, di comunità, che non siano transitori, e che molti — su un altro versante — cercano in associazioni, comunità, famiglie allargate). E se il godimento per la presenza degli altri governato da un palco, non abitui alle esperienze politiche dello stesso tipo, che poi inevitabilmente scivolano verso sistemi dittatoriali o comunque di un uomo solo al comando. Queste e altre domande ancora. Ma esse vanno affrontate senza mai dimenticare che trattano di un piacere dell’esistenza senza del quale la vita sociale sarebbe più povera. Ricordando che come esseri umani possiamo sia provare piacere che riflettere sulle sue fonti.

