
Antropologo a domicilio n°93 (5.2.2024)
Da che mondo è mondo – e mai come in questo caso l’espressione è adatta - i padri sono portatori di un passato che cercano di trasmettere ai figli nel presente, perché ne facciano tesoro nel futuro. La memoria del passato è importante, per costruire il futuro. Ma attenzione: per costruirlo, non per impedirlo. Quando il peso del passato schiaccia il presente, lo blocca, non consente nessun mutamento, allora pregiudica il futuro.
Penso agli israeliani e ai palestinesi, e alla scomparsa del futuro per le generazioni a venire.
Non si può sottovalutare la tragedia di tutti e due i popoli. E non capisco come si possa parteggiare per l’uno a dispetto dell’altro. La tragedia è dei due popoli insieme.
Quando le truppe sovietiche entrarono ad Auschwitz, la Shoah era finita. Ma cominciava allora il dolore immenso dei sopravvissuti, il senso di colpa, il silenzio, la rabbia. Che si trasmisero ai figli e ai figli dei figli. Peraltro, l’antisemitismo non cessò con la Shoah, anzi trovò modi e tempi per continuare a muoversi nel mondo e a venire fuori come un serpente velenoso nella vita degli ebrei.
Bisogna guardare anche da questo punto di vista l’orrore israeliano per ciò che è accaduto il 7 ottobre. Non è per giustificare i politici che hanno fallito, la loro miopia, ignavia, o il loro cinico azzardo, ma per sentirsi fratelli dei fratelli ebrei che soffrono.
Nell’altro campo, quello palestinese, quando gli ebrei fondarono lo stato di Israele nel 1948, i palestinesi presenti in quei territori persero le loro case, le loro terre, persero tutto. “Nakba” fu per loro, cioè catastrofe. Erano circa centomila, adesso superano i cinque milioni. Come un serpente velenoso il senso della catastrofe è passato generazione dopo generazione ai figli e ai figli dei figli. Spirito di vendetta, frustrazione per la perdita, vissuto quotidiano di sconfitta ed espropriazione sono stati il pane quotidiano.
Ora, i due popoli stanno combattendo una guerra di odio, ma per procura d’altri. Sono entrambi vittime della storia, della nostra storia imperiale. Gli ebrei sono là perché dopo la Shoah il senso di colpa occidentale ha concesso loro la “terra promessa”. E i palestinesi si sono trovati in mezzo perché non erano né europei né americani, ma “arabi”, cioè seconda linea dell’umanità, quasi scarti, da decenni anzi secoli ostaggi delle lotte tra le potenze occidentali per il dominio imperiale del mondo.
L’odio ha scavato un solco forse invalicabile tra i due popoli, e non c’è nessun segno che dia speranza. È scomparsa la politica, al suo posto una disperata furia, disposta agli azzardi più cinici e folli.
E c’è follia nelle logiche politiche, economiche, strategiche delle potenze locali e globali, che sono dietro le due parallele catastrofi. Logiche antiche, che oggi sono del tutto irrazionali: esse hanno condotto ai massacri di oggi ed esse rischiano di condurre a massacri di domani. Forse mondiali. Follia.
E ancora c’è follia in chi, in tutti e due i campi, ritiene di avere Dio con sé per vincere e distruggere il nemico. Pochi, molti, non lo so, ma contano, forse contano più di coloro che vedono che oggi sono in gioco la vita e la morte di intere generazione. Follia.
Da una parte sono al governo israeliano forze che pensano che il problema palestinese possa essere risolto con la scomparsa del popolo palestinese: esilio o chissà, genocidio.
Dall’altra parte chi controlla le leve del potere, Hamas, ritiene che soltanto la cacciata degli ebrei da quella terra martoriata risolverà il problema palestinese.
È follia. Non è la prima volta che la follia governa le sorti del mondo, purtroppo: calcoli sbagliati, superficialità, fanatismo, ottusità. Il Novecento è pieno di queste storie. Follie.
La vittoria sulla follia sarebbe il ritorno al centro dell’imperativo umano, ma non solo umano, condiviso da tutte le specie mammifere, naturale: mettere al mondo figli significa garantire loro il futuro.
E dunque i padri di quella terra afflitta – i padri nel senso proprio, perché sospetto che le madri ne siano già convinte – sono davanti a un bivio: dare un futuro ai propri figli o rimanere schiacciati dal passato: dal proprio passato, che non è mai passato, ed è diventato il presente stesso e la prospettiva tragica di futuro dei figli e dei nipoti. L’unico modo per sopprimere l’odio di oggi è allentare la presa della memoria del passato.
E così tornare alla politica, alla politica che oggi là è scomparsa, sostituita dalla guerra, alla politica che è l’unica risorsa per arrivare a un accordo di una convivenza possibile.
Sembra un’utopia, ma non è impossibile.
In questi giorni in una terra altrettanto martoriata dall’odio, l’Irlanda del Nord, ha giurato un nuovo primo ministro, leader di uno dei due schieramenti più coinvolti in passato in azioni sanguinosissime. Per decenni terrorismo, assassinii, soprusi, violenze di ogni tipo avevano diviso protestanti e cattolici - sullo sfondo i comportamenti brutali dell’esercito di occupazione britannico – e avevano scavato solchi di odio che sembravano insuperabili. Eppure nel 1969 si riuscì ad arrivare a un compromesso di pace, che oltrepassava l’odio. Oggi, cinquant’anni dopo, una donna, Michelle O’Neill, ha giurato come primo ministro. Nel discorso di apertura ha dichiarato che porterà avanti un mandato «inclusivo e rispettoso di tutti», ha sottolineato che a «nessuno di noi viene richiesta una resa, una rinuncia alla propria identità». E infine ha concluso: “desidero che tutti camminiamo in armonia e amicizia. Il mio sguardo è fisso sul futuro».
Ecco, lo sguardo fisso sul futuro, che è più importante del passato.
