Antropologo a domicilio n°92 (24.12.2023)
C’è un pastore del presepe chiamato il “pastore della meraviglia”. Davanti alla grotta apre le braccia, spalanca la bocca e così rimane fisso nell’eternità ad assistere alla meraviglia della nascita e del prodigio del mondo che l’ha accolta.
C’è ben poco per cui provare meraviglia oggi nel mondo, c’è ben poco che faccia esultare per ciò cui si assista. Al contrario c’è da disperarsi per il dolore e per il degrado del mondo. Umano, animale, naturale.
Eppure quel pastore conserva la sua meraviglia: braccia aperte, bocca spalancata. È a causa della sua fissità di statuina o perché ci dice qualcosa che ci sfugge, ci sta sfuggendo?
Leggo qua e là, sui social e sui giornali stanchezza per il Natale, noia, rifiuto. E lo capisco, per ciò che il Natale è diventato. Poiché è lo sfolgorio delle luci che ormai detta il clima natalizio. È il via vai degli acquisti per mantenersi in regola con i doni che agita la nostra vita di questi giorni. Ed è dunque un Natale che non si vede l’ora di gettare nella spazzatura assieme alle carte dei doni e ai resti dei pasti.
Ma in questo modo stiamo perdendo un’occasione per utilizzare al meglio una grande “meraviglia” che le generazioni precedenti ci hanno tramandato. Pure nelle enormi trasformazioni della festa, c’è tuttora una meraviglia, contenuta nel lascito generazionale del passato.
Per i credenti il Natale dovrebbe essere una festa innanzitutto sacra, che ricorda la venuta al mondo del Salvatore. L’ingresso di Cristo nella storia umana: che non è cosa da poco per loro. Essi credono – ma molti forse non se lo ricordano più – che il Dio che adorano decise di entrare nella storia della vita sulla terra; cioè di “uscire” dall’eterno e darsi un tempo di nascita e di morte. Come atto di amore sconfinato per gli esseri umani. E come si fa a sprecarla con lustrini e consumi? Proprio non lo capisco.
Ma anche per i non credenti la festa dovrebbe avere una sua sacralità intrinseca che la differenzia dalle altre. Perché quella nascita davanti a cui si ferma per sempre il pastore della meraviglia è un simbolo necessario di ri-nascita: cioè nascere di nuovo, almeno provare a farlo, avvertire finalmente una volta all’anno una tensione verso il rinnovamento. Di sé innanzitutto, e poi delle relazioni con gli altri, della propria comunità e infine – forse più importante di tutto - delle sfide delle alterità, diversità e dei nuovi confronti. È il Natale il vero Capodanno, perché questo della nascita è il vero momento di attesa, gioia e nuovo lancio di sé nella vita comune. Ciò che gli antenati vicini e lontani ci hanno consegnato – mai dimenticare i lasciti del passato - è un momento unico che non può essere accolto se non con meraviglia. Nel cuore stesso dell’intimità più raccolta – i pochi o molti seduti intorno al tavolo della vigilia – si attende, nella gioia e nella condivisione del cibo, quella mezzanotte in cui suona uno scatto in avanti del mondo. Quel bambino che nasce nella notte più buia dell’anno e nel cuore stesso dell’inverno, segna un mutamento del tempo, della vita, del cosmo.
Ma non è finita.
Una nascita, nel suo senso più proprio, è l’arrivo di un altro, di uno straniero, di un diverso. Quando nasce un bambino i genitori, i parenti, gli amici si affrettano a notare le somiglianze, cioè a togliere il sospetto che quel bambino sia davvero un “altro”. Lo riconducono alla ripetizione di sé stessi, del gruppo, della comunità di appartenenza.
Ma il bambino è davvero un altro, che imporrà nuove regole intorno a sé per sostenerlo, allevarlo, farlo crescere.
E il bambino della grotta di Natale, davanti a cui è fermo per sempre il pastore della meraviglia, è davvero e definitivamente un “Altro”. Per il credenti è Dio stesso fatto bambino di umani. E per i non credenti che ascoltano il lascito antico della tradizione è l’irruzione dell’alterità nella propria vita. Sì, alterità. Si è celebrata insieme la sua attesa, mangiando, bevendo e divertendoci, ma ora lui è arrivato. Lui, il diverso, lo straniero, colui che ci chiede, nella sua debolezza estrema di bambino, di indifeso, di vittima, di dolorante, di ultimo sulla terra, di essere accolto, curato nella sua debolezza, e non espulso, confinato in un recinto, respinto.
E se davvero noi lo accoglieremo, cureremo, considereremo fratello o sorella, davvero pensate che il pastore della meraviglia non si fermerà anche davanti a noi, rimanendo rapito dalla meraviglia di noi che abbiamo ritrovato una condivisione di umanità comune in questo nostro doloroso mondo che sembra averla persa del tutto?
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