Antropologo a domicilio n°34 (26.2.2018)

Nel novembre del 2007 una donna fu stuprata e uccisa alla stazione di Tor di Quinto a Roma. L’assassino era un immigrato rumeno, che poi fu arrestato e ora sta scontando l’ergastolo in Romania. Qualche mese dopo, nell’aprile del 2008, vi furono le elezioni politiche nazionali; a Roma anche per la carica di sindaco. L’agenda elettorale nazionale e soprattutto quella romana si concentrarono sulla sicurezza e misero al centro i rom, i rumeni, gli immigrati. “Invasione”, “ruspe”, “tolleranza zero”. Il candidato del centrodestra Gianni Alemanno costruì su questo fatto tragico la sua campagna. E vinse. Qualche settimana fa una ragazza è stata uccisa in circostanze ancora misteriose e poi barbaramente sezionata e nascosta in due valigie. Sono stati arrestati tre spacciatori di nazionalità nigeriana. Lo slogan mediatico quasi vincente è che “sono stati i nigeriani”. L’articolo “i” dichiara che non sono stati “tre” nigeriani a compiere il delitto (ammesso che i giudici lo confermino in una sentenza), ma tutti i nigeriani, cioè un’intero popolo (o etnia se preferite). Che solo in Italia è composto da poco meno di novantamila persone. Sono stati tutti loro? Certo che no, è come dire che per il prossimo delitto di camorra, in qualunque luogo avverrà, saranno “i” napoletani a portarne la responsabilità. Però così passa la propaganda elettorale e così in essa cascano milioni di persone in Italia. Nel clima della presente competizione elettorale. Con la prospettiva che si ripeta quella del 2008.
La democrazia è uno specchio della società del tempo. Agli albori della democrazia moderna i rappresentanti dei gruppi sociali che avevano accesso per censo alla rappresentanza in parlamento, avevano chiaro in testa quali fossero i loro interessi, e per essi lottavano. Contrapposizione e poi compromesso tra interessi diversi, questo era la democrazia sulla scena della storia moderna. È così che ha funzionato ed è così che ha mostrato di essere il miglior sistema — o il meno peggio — tra tutti i sistemi politici elaborati dagli esseri umani dalle origini della loro storia.
Specchio della società del tempo. Quando votavano solo gli uomini era specchio di una società in cui le donne erano appendici domestiche di uomini dominanti. Poi il suffragio è diventato universale, poiché la società era cambiata, e riconosceva un ruolo pubblico alle donne. Nell’Italia del secondo dopoguerra la democrazia era lo specchio di una società che molto a fatica cercava una nuova dimensione di crescita giusta e serena dopo le immani tragedie della dittatura e della guerra che ne seguì. Di cosa è oggi specchio la nostra democrazia? di un’epoca dalle immani complessità che sfuggono a un quadro ideologico circoscritto. Il disagio della complessità genera confusioni e conseguenti pulsioni emotive (la “pancia”, di cui si parla). E diventa difficile condividere le fredde ma necessarie regole formali della democrazia. Tutto e subito, si auspica. Molti votano, pochi forse si interrogano sul proprio voto. Molti non votano nemmeno più. Ma anche quelli che non votano più sono travolti dalla confusione epocale. Siamo tutti confusi, io sospetto. E allora ci facciamo dominare da un bisogno di identità nella quale riconoscerci, e stemperare in tal modo l’angoscia da confusione. Avere un partito, un movimento, un sito online di riferimento ci dà una possibilità di aggancio, che non è “mentale” (cioè riflessivo), ma identitario. Si diventa allora impermeabili a qualunque obiezione che venga da un’altra parte. In altre parole, si rinunzia a “pensare”, cioè a riflettere, usare la ragione. C’è un recente studio pubblicato su una importante rivista americana “Trends in Cognitive Sciences” che mette in luce questo rapporto tra appartenenza politica e identità, e che mostra come esso si rafforzi se poi il linguaggio del dibattito politico usato è aggressivo. Cioè, se insulti il tuo avversario, cresce il sentimento della sua identità e non è più portato a riflettere, bensì ad contrattaccare. E viceversa. E’ in un contesto del genere che il bisogno di identità diventa più forte di quello di accuratezza dell’informazione. Credi a tutto ciò che viene dalla tua parte, fakenews comprese, per “fede”, e rifiuti tutto il resto. Insomma, rinunci a riflettere. Sembra uno studio dedicato alla situazione italiana, in realtà è nato nel contesto americano dell’elezione di Donald Trump.
Io penso — continuo ostinatamente a pensarlo — che l’unico rimedio alla confusione e alla conseguente ricerca di identità più che di “verità” sia insistere, insistere, insistere a “pensare” e invitare a farlo.
Un buon esercizio di riflessione è non usare etichette, o limitarle al massimo. O comunque metterle in discussione. Un altro è rifiutare gli slogan, e inoltre impegnarsi a coglierne la logica, individuarne l’“a chi giova?” più che il “cosa dice”. “Decostruirlo” insomma, come si dice in gergo scientifico. In Sudafrica hanno appena cacciato via un presidente, Zuma, che era in combutta con una famiglia di magnati, i Guptas, che si è scoperto si servivano di un’agenzia di comunicazione britannica, Bell Pottinger, per imporre un certo tipo di comunicazione mediatica fatta di slogan vincenti, che inducevano le persone ad assimilare la loro propaganda, eappuntoa non pensare (tra parentesi: linganno è stato scoperto grazie agli anticorpi della democrazia britannica, che ha consentito a giornali indipendenti di scoprire i traffici segreti). Uno slogan vincente aveva dominato per lungo tempo la comunicazione: “capitale monopolistico bianco”, con il quale i Guptas, di origine indiana, allontanavano lo sguardo della maggioranza nera sui loro loschi affari, spingendolo verso un presunto complotto bianco. Giovava ai Guptas più che alla gente che ne rimaneva vittima.
In questa campagna elettorale l’uso degli slogan stronca-ragionamento ha raggiunto forse livelli mai prima toccati, almeno in Italia. È andata così: chiunque vinca, nei prossimi mesi o anni avremo da rimettere insieme i cocci di un sereno dibattito politico. Ma almeno dovremmo raggiungere la consapevolezza che l’esercizio della riflessione che è mancato e manca dovrà riprendere il suo corso di democrazia matura. Senza scoraggiarsi. Poichè non vi sono alternative. “Pensare” dunque. E lasciare che il pensiero faccia il suo lento corso. Lento. Non frettoloso. Senza scoraggiarsi se le cose sembra che precipitino. Perchè se si riprende ad esercitare la riflessione gli effetti si vedranno.
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