Newsletter n°103 (21.10.2024)

Quando vedo in tv o sui giornali o in Rete il primo ministro israeliano Netanyahu, non mi viene di associarlo alle vittime della Shoah, non giustifico il suo operato in nome di quell’orrore, ciò che vedo è un cinico furbacchione che prolunga una strage pur di non finire in galera (che a quanto pare gli si aprirà appena finito il mandato di governo); peggio se è possibile, quando ascolto le violenze verbali dei suoi ministri estremisti, (Bezalel Smotrich, per esempio, ministro delle finanze, ad agosto ha detto che far morire di fame due milioni di palestinesi potrebbe essere “giustificato e morale”), in cui riconosco un ottuso fanatismo nazifascista mascherato di fondamentalismo religioso. Intendiamoci: è assolutamente lo stesso quando vedo o sento i dirigenti Hamas. Qualche giorno fa ne hanno ucciso un altro, forse il gran capo, e non ho certo la testa per commuovermi per lui, poiché tutto lo spazio della commozione è occupato dal dolore per le stragi di bambini, di donne, di uomini palestinesi e israeliani che il suo fanatismo, il loro fanatismo, pari solo a quello dei loro avversari, hanno prodotto.
Ci si può sforzare di comprendere l’odio accumulato negli anni da una parte e dall’altra, è il compito degli studi sociali, ma non si potrà mai giustificarlo, l’odio non è politica, l’odio porta a odio e alla fine vittima e carnefice si scambiano le parti. Chi è vittima? Hamas (o Hezbollah), i cui capi cadono come pere mature uno dopo l’altro o i capi israeliani che hanno ereditato il terribile male assoluto perpetrato dai nazisti e lo usano impropriamente come arma contundente contro il popolo palestinese? Né gli uni né gli altri, le vittime sono i popoli condotti quasi inconsapevolmente sulla strada dell’odio che non può che fagocitare entrambi, chi odia e chi è odiato. E non venite a dirmi che scivolo verso l’antisemitismo, poiché questo male antico appartiene a chi semina odio e oggi tra i più decisi produttori di antisemitismo sono quei governanti di tutte e due le parti che ne stanno seminando a bizzeffe, e – facile profezia - le piante che ne nasceranno cresceranno rigogliose nei prossimi anni e decenni in quelle terre.
E Putin? E Zelensky? Il primo a me suscita solo genealogie politico-criminali che mi riconducono a Stalin e dietro di lui a quell’elenco interminabile di leader criminali di cui è costellata la storia dell’umanità. Per parte sua, Zelensky, con quella specie di perenne costume guerresco di scena, a me fa l’effetto di una tragica maschera carnevalesca che continua a chiedere armi, armi ed armi per una guerra che tutti sanno non potrà né essere vinta né essere persa. Una guerra e basta. Che forse durerà anni e anni e che produrrà vittime e vittime, a migliaia – fino ad oggi quante? duecentomila? mezzo milione? di più ancora? Il Wall Street Journal recentemente ha quantificato in un milione il bilancio tra morti e feriti – e che verrà ricordata nella galleria degli orrori recenti insieme a quella del Vietnam e dell’Afghanistan, guerre decennali, guerre inutili, guerre devastanti di vite umane e di territori.
E i governi del mondo? E l’Onu? Di quest’ultimo, ormai ridotto al fantasma di se stesso, morto che parla della sua impotenza, meglio tacere, ma i governi del mondo? Non c’è da aspettarsi granché dalla Cina, dall’India, dai paesi arabi sunniti: ognuno ha l’interesse di veder dissanguare l’avversario o chiunque sia amico dell’avversario. Ma dall’Europa, dagli USA? Solo impotenza? E che dire del loro organismo politico-militare, cioè la Nato, i cui capi in successione continuano a blaterare di “vittoria” dell’Ucraina, quando ormai è chiaro a tutti – loro compresi - che sul campo non potrà esserci nessuna vittoria contro l’“orso russo” disposto a tutto pur di non perdere, compresa l’arma atomica. Epperò loro sono sicuri che non potrà esserci neppure sconfitta, poiché questo glielo assicura l’industria delle armi, che nel 2023 secondo il SIPRI di Stoccolma ha toccato il vertice di 2443 miliardi di dollari – tanto per dare un’idea delle proporzioni, nello stesso anno l’aiuto pubblico globale allo sviluppo è stato di 200 miliardi – e che è forse l’artefice primario di questa guerra, queste guerre (ci metto dentro anche il Sudan, su cui stendo un velo di pietà per il numero spaventoso di vittime).
La verità è che è scomparsa oggi nel mondo la ragionevolezza della diplomazia, nonostante che secoli di storia dicono a chi continua ad esercitare il bene del pensiero, che solo i compromessi diplomatici – compromessi - possono avviare la risoluzione dei problemi, giammai le guerre. Queste ultime devastano e massacrano, tocca poi a chi siede intorno a un tavolo di pace ricostruire e riportare la vita, la speranza, il futuro, là dove l’odio e le armi avevano portato solo il male.
Ma la ragionevolezza sembra oggi un bene raro, se si guarda all’angolo buio e cieco in cui si stanno ficcando anche nei paesi democratici, elettorati che vengono convinti con inganni e promesse vane che solo rinforzando i sovranismi violenti disposti a tutto si può aspirare a un futuro di benessere. Quei sovranismi che oggi come ieri mostrano e hanno mostrato che sono mostri che mangiano se stessi mentre provano a mangiare gli altri.
Ma guai a rassegnarsi: già riflettere, già discutere, sia pure da posizioni diverse, sono sfide contro ciò che sembra ineluttabile.