Antropologo a domicilio n°69 (7.3.2021)

Ci sono quelli chiusi in casa per evitare il contagio del virus. E quelli spavaldamente fuori, a sfidare i divieti (le movide, più o meno proibite e/o tollerate).
Quelli chiusi sono in gran parte anziani. Che sono spaventati. Invece gli spavaldi che vanno in giro sono generalmente giovani (certamente lo sono quelli delle movide).
Ma cos’è, egoismo sociale? Indifferenza per le persone più fragili? Giovani contro vecchi? Magari c’è anche questo, però il problema è più sottile e profondo, e la pandemia ne è solo una spia amplificatrice.
Forse riusciamo a capirlo se spostiamo gli occhi altrove, cioè se riflettiamo su cosa regola il flusso quotidiano dei social. La volontà di connettersi agli altri? Manco per niente. I social non sono predisposti per favorire, come ingenuamente si penserebbe, le relazioni sociali, bensì i grandi interessi economici di chi li controlla. Sotto il profluvio di post, di selfie, di like, domina il meccanismo della promozione dei consumi. Chiunque abbia uno smartphone, un account Facebook, Youtube, Instragram o qualunque altra connessione, sa per esperienza personale che ogni volta che si connette viene quasi inseguito nei suoi gusti, nelle sue tendenze e soprattutto nelle sue preferenze di acquisto. E quando viene raggiunto, senza che se ne accorga viene chiuso nella sua nicchia di consumo potenziale. Piano piano — noi quasi inconsapevoli — un meccanismo invisibile ci sta chiudendo in camere stagne di preferenze di consumo. Questo meccanismo è controllato dagli algoritmi che incessantemente costruiscono i “profili” dei singoli utenti. Che per Facebook e compagnia sono soprattutto consumatori. L’aspirazione degli algoritmi che seguono e orientano i nostri gusti e preferenze sarebbe di chiudere ciascuno di noi in una camera stagna perfettamente individuale e dunque solitaria: ciascuno chiuso con se stesso. E non è detto che prima o poi non ci riescano. Ma per ora questo meccanismo è inceppato dal nostro bisogno di socialità, in quanto esseri umani. Nel contrasto tra profilazione individuale del consumatore e bisogno che ciascuno di noi ha di essere in compagnia, si creano raggruppamenti di consumatori di vario ordine di grandezza: dalla “nicchia” di gusto elitario, alla massa dei consumatori di un brand di successo; dalle differenze in base al genere, a quelle per il “portafoglio” o per la collocazione geografica. Semplificando, qui guardo soprattutto alle “classi di età”, cioè ai gruppi di consumo in base all’età: bambini, adolescenti, giovani, anziani.
Ora, poiché questo meccanismo si perfeziona sempre di più (oggi lo è più di due anni fa e ancora di più lo sarà tra due anni), la conseguenza indiretta è che ogni gruppo di consumatori tende a privilegiare i componenti della propria camera stagna, che sente simili e familiari, e ad escludere tutti gli altri. L’esclusione ha forza diversa. Minima in alcuni casi, massima in altri. Per esempio è massima tra giovani e anziani. Per i primi, i secondi semplicemente non esistono. Sono estranei in tutto e per tutto. Ma è vero anche il contrario. Se si escludono le relazioni familiari (che in alcune realtà sono ridotte al minimo) tra giovani e anziani non c’è mai un punto di contatto.

Nelle società tradizionali non esistevano o erano ridotti al minimo questi reciproci meccanismi di esclusione. Certo c’erano differenze (di ceto, di genere, di età), ed erano anche molto forti, ma non portavano all’esclusione. Quelle tradizionali erano società di inclusione. A messa la domenica, per esempio, i notabili avevano riservati i posti migliori, le donne spesso erano separate dagli uomini, però tutti partecipavano alla stessa cerimonia, cioè tutti erano inclusi nella società. Nella nostra società che non ha più cerimonie che siano in grado di coinvolgere (e dunque includere) tutti, la forza di esclusione reciproca è diventata esorbitante. E la moltiplicazione delle connessioni virtuali invece che favorire l’inclusione, paradossalmente la impedisce. Come per una trappola diabolica, la società dalle connessioni fittissime è diventata la società dell’esclusione generalizzata. L’utopia umanistica e libertaria dei padri fondatori di Internet è scivolata nella trappola degli interessi commerciali che sono dietro i grandi network della rete, i quali, pur di perfezionare il meccanismo di condizionamento dei gusti e delle preferenze di consumo, ci hanno chiuso nelle nostre privatissime camere di gusto, sentimento, visione del mondo, infine consumo. In queste privatissime camere conviviamo con i cloni di noi stessi e ci siamo abituati a rifiutare ogni tipo di diversità. Con due gravissime conseguenze:
a) La promozione dell’odio verso la diversità. Il diverso sta progressivamente diventando il disumano e dunque il subumano. L’esempio più forte (e più violento) è il trattamento dei migranti. Ma è solo la punta dell’iceberg, la cui parte nascosta comprende tutti. Pochi riflettono sul fatto che la diffusione dell’odio per il diverso decreta una sorta di vittoria postuma del nazismo, che appunto dichiarava subumani i soggetti proposti all’odio collettivo: ebrei, rom, omosessuali, malati di mente e così via.
b) La promozione del meccanismo dell’esclusione sociale. Ci si sta progressivamente abituando a considerare la diversità come estraneità. L’esempio forse più evidente è in politica la trasformazione della dialettica tra diversi in contrapposizione che delegittima ed esclude l’avversario. Ma ci sarebbero molti altri esempi. Con il paradossale risultato (e sarebbe comico se non fosse tragico) che non esistono più inclusi ed esclusi: nella società dell’esclusione non esistono inclusi, giacché tutti sono esclusi. Per ciascuno di noi c’è sempre da qualche parte qualche gruppo che ci esclude. Ma il meccanismo di esclusione è generalizzato: ci si sta abituando a un modello di convivenza in cui i diversi non sono da considerare parte inclusa in una società che comprenda tutti, ma come estranei da espellere.
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