ArchivioAntropologicoApolito n°9 - 23.3.2023

Piangere la morte di carnevale è per ridere, però è in faccia alla morte che si ride, non bisogna dimenticarlo. Ridere del pianto è un oltraggio alla morte, di questo si tratta a Carnevale (in quello contadino e in ciò che di esso rimane): mettersi in faccia alla morte e ridere di essa. E farlo nella propria comunità. E qui risparmio un approfondimento antropologico, su cui c’è una vasta bibliografia, per chi voglia scendere in profondo. Invece racconto una storia. 
Una volta un gruppo di braccianti agricoli si mosse dal proprio paese del salernitano, San Marzano sul Sarno, per andare a far visita a un gruppo teatrale, il Teatrogruppo, che a Salerno si riuniva in uno scantinato. In quella sede, i braccianti cuntarono, cantarono, suonarono i loro strumenti. 
Poi fu il Teatrogruppo ad andare al loro paese per continuare lo scambio, l’intesa, l’amicizia. Era l’epoca degli scambi culturali, quella in cui Eugenio Barba e l’Odin Teatret entravano in paesi salentini e si insediavano per creare meccanismi di “baratto culturale” (teatrale, narrativo, simbolico) con gli abitanti locali. Tra i canti che i braccianti offrirono – era veramente “‘na ‘nferta”, non una banale rappresentazione – ci furono due diversi tipi di lamenti per Carnevale morto. Queste voci, con le loro intonazioni, i loro melismi, i loro tempi espressivi sono tra i più bei documenti del mio archivio. È difficile forse oggi ritrovare quel modo di cantare, e quella solennità nel canto. Il lamento è scherzoso, ovviamente. Si piange Carnevale per irridere alla morte, come l’antico Carnevale contadino faceva da secoli. Eppure la serietà espressiva, priva di ogni sbracamento vocale, ogni cedimento “avvinazzato”, fa pensare a una concentrazione rituale consapevole di svolgere il compito comunitario di vincere la morte cantando. Questa volta in Facebook e in Youtube gli stessi documenti: due lamenti, il primo dei quali detto “alla napoletana”. Ma prossimamente inserirò nel canale Youtube tutto il repertorio dei canti che quei braccianti “offrirono” ai ragazzi del Teatrogruppo di Salerno.
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