Antropologo a domicilio n°74 (4.9.2021)

Uno. Umanesimo, Rinascimento, rivoluzione scientifica, Illuminismo, Democrazia.
Due. Colonialismo, genocidio degli indiani d’America, schiavitù africana, imperialismo, due sanguinosissime guerre mondiali, nazifascismo, Shoah.
Due narrazioni del tutto diverse sull’Occidente. Quale vogliamo continuare a raccontarci?
La domanda preme quando si vedono le scene di Kabul. E non tanto per l’orrore che suscitano, quanto per le dichiarazioni che le accompagnano: “abbiamo fatto i nostri interessi”. Promettere democrazia, sviluppo, libertà, emancipazione femminile per vent’anni e poi rimangiarsi tutte le promesse perché non rientrano tra i “nostri interessi”, questa è una storia da aggiungere alle altre delle due narrazioni.
E dunque. Quale narrazione vogliamo continuare a raccontarci?
Forse quella che mescola insieme le due, senza lasciare fuori niente? Umanesimo e Colonialismo, Rinascimento e Genocidio, e così via? Direi di sì. Facciamolo dunque. Facciamolo subito. E raccontiamocela così la nostra storia, davanti al mondo intero. Per un bagno di umiltà. E per abbandonare quella spocchia davanti al resto del mondo che ancora continuiamo a indossare. Nessuna superiorità: una “civiltà” in mezzo alle altre, non sopra. Che nessuno di noi dunque venga a dire che abbiamo ragioni morali per parlare al mondo. Sì, ce le abbiamo, ma come tutti. E altrettanto sì che non ce le abbiamo, come tutti. L’epoca di dividere i popoli tra barbari e civili è finita da un pezzo, e forse ora tutti possono venire a saperlo. “Difendere la nostra civiltà” è un modo comodo e ipocrita di dire “difendere i nostri interessi”. Lo abbiamo fatto, continuiamo a farlo. Ma ora siamo a una svolta della storia. Nessuno più si beve le nostre bugie sull’esportazione della democrazia, sull’allargamento dei diritti universali. I nostri discorsi di pace sono accompagnati e smentiti dai mercanti d’armi. Lo sanno tutti, noi tardiamo a capirlo di noi stessi, ma le guerre dei “giusti” contro i “barbari” appartengono alla retorica del passato, non funzionano più per l’avvenire.
Io non so quale sarà il destino del mondo, non so quale tra le strade incerte e confuse sulle quali ci siamo incamminati come umanità finirà per prevalere, non so neppure se ci sarà una strada comune. Ma so di certo che se non troviamo punti di condivisione andremo incontro ad una catastrofe finale dell’umano. Se si vuole la pace, se davvero si vuole la pace, bisogna imparare ad ascoltare le ragioni degli altri. In un dialogo si parla in due, non c’è uno che impone la sua parola all’altro.
In antropologia si impara ad ascoltare gli altri, si impara a riconoscere che la fatica di tutti i gruppi umani è di costruire un senso del mondo, il proprio, di condividerlo e agire di conseguenza. Non ci sono gruppi umani che agiscono in preda a un puro istinto, non ci sono culture che negano il minimo elementare umano, tutti in buona fede cercano l’umano in sé e il meglio per sé. La diversità e, spesso di conseguenza, il conflitto sono risultati complessi di storie diverse, di ambienti diversi, di eventi e di incontri diversi. Ma tutti umani.
Ho da poco concluso con il collega Stefano De Matteis la quarta edizione di una scuola estiva residenziale di antropologia dedicata all’autoetnografia: raccontare se stessi in modo da usare il sé (un sé decentrato) come strumento di conoscenza degli altri. Un metodo difficile, complicato, pieno di trappole che spingono invece verso l’autobiografia, verso un sé centrato. C’è una regola di base, anzi due che noi indichiamo, e che qui mi sembra utile richiamare: a) se devi raccontare te, ricordati che sei in relazione agli altri nella tua vita (perché nessuno sta solo al mondo, siamo tutti più o meno in relazione), e b) dunque se devi raccontare una relazione non limitarti alle tue ragioni, ma descrivi anche le ragioni dell’altro, degli altri. Poi e solo poi, puoi tornare a difendere le tue ragioni. Con uno slogan ambiguo ma efficace dicevamo: dobbiamo ascoltare anche le ragioni dei Talebani, non solo le nostre.
(Un’applicazione di questo principio di metodo sarebbe utile fosse fatta oggi in Italia davanti alla curiosa e stupefacente guerra di religione tra i cosiddetti novax e provax. È difficile che i primi ascoltino gli altri, ma è altrettanto difficile anche il reciproco. Forse più che guerra, l’esempio calzante è il tifo calcistico: non c’è nessuna possibilità di dialogo tra tifosi del Napoli e tifosi della Juve. Se ciò va bene sugli spalti degli stadi, va male nelle questioni mediche. Se invece che innalzare cartelli e magliette di tifo, ci si guardasse in faccia, si capirebbe che non esistono i novax come un gruppo unitario, e neppure i provax se è per questo, ma che dentro i raggruppamenti costruiti ad arte dai media e ribaditi nei social esistono persone, ciascuna con le proprie storie, le proprie difficoltà, le proprie paure e certezze e davvero non si fa bene alla società mettendo tutti insieme. L’arte politica più difficile è cogliere le differenze. Cos’ha a che fare un cospirazionista radicale, un rettiliano o un terrapiattista (o peggio un fascista) con una persona fragile e spaventata dal vaccino? Solo in tempo di guerra si crea l’alternativa netta: o con Noi o con il Nemico. Ma questa del Covid non è una guerra, è una prova di “civiltà”, semmai vogliamo continuare a sperare in noi stessi).
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