Antropologo a domicilio n°73 (6.8.2021)

Voglio fare il profeta. Facile. Tra qualche settimana la questione degli sbarchi di migranti tornerà alla ribalta nel dibattito pubblico e tra qualche mese sarà centrale nella campagna elettorale per le amministrative autunnali. Sono un facile profeta.
E si cercherà di rinforzare le politiche di rimpatri, si prenderanno accordi, sostanzialmente di respingimento, si tenterà a livello europeo di redistribuire una certa quota di migranti che arrivano sulle coste meridionali dell’Europa. Qualcuno su un lato dello schieramento politico dirà che bisogna difendere dall’invasione i sacri confini della patria. Sull’altro lato dello schieramento, qualcuno dirà che bisogna coniugare la solidarietà con la sicurezza.
E si andrà avanti anche per quest’anno al solito modo.Cioè come chi pensa di aver pulito il pavimento semplicemente mettendo la polvere sotto il tappeto. Meglio: come chi pensa che gli effetti possano essere rimossi senza intervenire sulle cause.Cioè sull’ingiustizia nel mondo.
C’è sempre stata ingiustizia sotto la luce del sole nel mondo. Non è una novità. Ma oggi essa si presenta nella sua nudità dappertutto e a tutti. Non è nascosta, non è invisibile, sta là, ostentata negli smartphone, nelle tv, nei media. Tutti la vedono, quelli che stanno bene e quelli che stanno male. I primi non ci fanno caso, i secondi invece la vedono bene, e come! E cercano di risolverla, almeno a livello personale. E partono per i paesi ricchi. Si avventurano. Prendiamo la pandemia. A parte nuove paure tutto sommato sotto controllo, in Occidente si comincia ad uscirne fuori. Tutti felici. In molte altre parti del mondo per niente. C’è un’ingiustizia più palese di questa, che mostra che chi ha soldi e potere guarisce e riprende a vivere, chi non ne ha rimane nella disperazione?
E prendiamo poi l’Africa. Lo sfruttamento intensivo delle immense risorse del continente non va a vantaggio dei paesi africani se non in minima parte. Grazie ad accordi con paesi non africani, potenti per soldi e influenza diplomatico-militare. Non occorre, credo, che entri nel dettaglio. Chi vuole può seguire queste vicende semplicemente non fermandosi alla cronaca del quaquaqua politico di casa nostra e leggendo nelle pagine seminascoste dei quotidiani o settimanali, o vedendo trasmissioni televisive (in orari impossibili).
Ma un piccolo esempio voglio offrirlo. Nel 2002 ero in Senegal. In un minuscolo villaggio di pescatori, Potu, vidi decine di piroghe abbandonate sulla spiaggia. Mi dissero che i pescatori le avevano abbandonate là, al sole, poiché pescare era diventato per loro un ricordo di altri tempi. All’epoca era in vigore un accordo firmato nel 1980 tra Europa e Senegal sullo sfruttamento delle risorse peschive di quel mare. La capacità di pesca delle flotte europee aveva in sostanza tolto alle piroghe locali ogni possibilità di pesca non finalizzata al consumo personale, le piccole aziende locali erano quasi tutte fallite e molti dei pescatori erano partiti per l’Europa, o stavano per farlo. All’epoca in Italia non si parlava molto di immigrazione. I “vucumprà” erano diventati quasi un elemento di colore locale. Nel 2006 in verità questo accordo micidiale per la pesca locale fu abolito. Ma nel 2015 ne è stato firmato un altro, “per la pesca sostenibile”, che riguarda non tutto il pescato, ma solo i tonni. Le associazioni dei pescatori locali protestano, le aziende locali protestano; “stiamo svendendo le nostre ricchezze per un pugno di noccioline”. Risponde loro un leader industriale europeo: “Il tonno è una specie migratrice, non vive nelle acque senegalesi. Ci passa e basta. Loro potrebbero pescarlo come noi, ma in questi anni senza accordo non sono stati in grado di sviluppare un’industria peschiera».” Già, e perché non ci sono riusciti? “Per mancanza di sostegno da parte dello stato – scrive Stefano Liberti su Internazionale -, per la concorrenza degli stranieri oppure per semplice incapacità imprenditoriale, è difficile dirlo”; (si può leggere l’articolo completo in https://www.internazionale.it/webdoc/fish/). Liberti poi aggiunge: “Certo è che la presenza della flotta europea oggi non facilita tale sviluppo. Gran parte di essa è costituita da navi di grandi gruppi, che negli anni passati hanno ottenuto sussidi di vario tipo, dalla costruzione degli scafi al carburante. Se il sistema delle sovvenzioni è cambiato nella nuova politica di pesca comune, con una sensibile riduzione e una limitazione degli abusi più gravi, è indubbio che gli armatori europei abbiano avuto un aiuto non indifferente negli anni passati. Tutt’oggi lo stesso pagamento da parte di Bruxelles delle licenze di accesso alle acque senegalesi è un sussidio pubblico versato in favore di interessi privati.” «Con le tasse dei cittadini europei si favorisce il saccheggio delle risorse africane da parte di grandi società», riassume Adama Lam, amministratore della Sopasen, una società franco-senegalese di pesca.
Non vado oltre nell’approfondimento del singolo caso. Ce ne sarebbero centinaia. La conclusione è che chi perde lavoro in virtù di questi accordi (virtuosi o viziosi, non è questo il punto) non ha molte possibilità se non quella di rischiare l’Europa. Rischiare. Cioè deserto, lager libici, traversata del Mediterraneo, mafie, non-accoglienza europea. Cos’altro fecero gli irlandesi alla fine dell’Ottocento quando vi fu una violenta carestia? E i contadini italiani poveri del Sud e del Nord-Est dopo l’unità d’Italia? E i russi che fuggivano dalla servitù della gleba? E gli ebrei che scappavano dal nazismo? Ci sorprendiamo?
Propongo un esercizio di immaginazione. Rovesciamo la prospettiva storica tra Africa e Europa. Diciamo che l’Europa è Africa e che l’Africa è Europa. Dunque: i libri di storia dicono (in questo esercizio di immaginazione) che l’Europa è stata sfruttata da secoli: la schiavitù (nel Cinquecento teologi africani qualificati la giustificavano sostenendo l’assenza dell’anima negli europei. Lo dicevano anche delle donne) dissanguò l’Europa di milioni di forze giovani, distruggendo famiglie, economie, popoli. Il colonialismo e l’ imperialismo (le frontiere tra possedimenti degli stati africani impegnati nella colonizzazione dell’Europa si tracciavano con le bandiere degli eserciti africani: si faceva a chi arrivava prima nei territori dei popoli europei) depredarono le ricchezze europee dalla Finlandia alla Sicilia. Nel frattempo le scienze africane facevano a gara a definire l’inferiorità biologica e culturale dell’uomo europeo. Persino il colore bianco della pelle europea divenne un simbolo negativo. Poi, la decolonizzazione post-guerra mondiale sostituì il dominio coloniale con un neocolonialismo economico (via gli eserciti africani, sì, ma non via le banche africane, i prestiti internazionali, le multinazionali e via discorrendo) e culturale (le lingue parlate in Europa rimasero quelle africane e la modernizzazione che gli africani portarono con gli aiuti internazionali era africanocentrica. Che ne dite? è un po’ complicato, no? seguire questo esercizio di immaginazione? Troppo irrealistico? Ma proviamo a continuare. Domanda etnografica: “scusi, signor uomo della strada europeo, come si sente con questo passato alle spalle? Come vede l’Africa? con odio?” Ma che! Le risposte degli uomini della strada europei sono che non odiano gli africani, anzi molti di loro cercano di andare in Africa per rifondare la propria vita.Esercizio finito.
Acqua passata, tutta questa storia? E no, l’acqua passata scompare, sostituita dalla presente, ma qui il passato non è scomparso, è la base del presente.Dunque è tutta responsabilità dell’Occidente? No, certo che no. La Storia si muove per un insieme di concause, non per una sola. Non è tutta responsabilità dell’Occidente. Solo a guardare le cose più recenti, c’è la parte della vecchia URSS, come dell’attuale Russia, e oggi è entrata prepotentemente in campo la Cina “comunista”. E poi ci sono enormi responsabilità delle élites africane locali (ben sostenute e rifocillate da quelle europee).
Fermiamoci qui. Il punto focale del mio pensiero è il seguente: davvero pensiamo di risolvere il gigantesco problema degli spostamenti di popolazione dal mondo povero a quello ricco (compresi i sudamericani che premono alle frontiere degli Stati Uniti) mettendo la polvere sotto il tappeto? Non è meglio guardare in faccia la realtà e tentare di affrontare i problemi nelle loro dimensioni reali? È ciò che dovrebbero fare i politici. Ma chi glielo dice agli elettori poi? e così il cane si morde la coda. Nel frattempo la marea non si arresta né con muri e fili spinati,né con norme e regolamenti.
Piccola favola per la buona notte: “Nel 2015 un gruppo di migranti, perlopiù rifugiati siriani, si trovarono (sic!) bloccati al confine tra Russia e Norvegia. A Damasco o a Beirut avevano ottenuto visti per la Russia, avevano raggiunto Mosca con l’aereo, e da qui avevano preso un treno per Murmansk, a 200 chilometri dal confine con la Norvegia. Per i russi era illegale passare il confine a piedi; per i norvegesi passarlo in macchina. Così i rifugiati lo varcarono in bicicletta, cinquecento alla settimana. Migliaia di migranti, pedalando su bici scassate, poterono entrare in Europa. I burocrati non ci avevano pensato” (Suketu Mehta, Questa terra è la nostra terra. Un manifesto dei migranti, Einaudi, 2021, p.12). Buonanotte.
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