Antropologo a domicilio n°46 (19.1.2019)

Ma ci serve la parola “cultura”? La domanda fatta da un’antropologo può sembrare strana. Infatti fu proprio l’antropologia nella seconda metà dell’Ottocento a introdurre nel vocabolario comune la parola (e il concetto collegato) di “cultura”. Non nel senso “ciceroniano” (cioè di quando ci si riferisce al patrimonio di conoscenze di una persona, di cui appunto diciamo “è una persona colta”), ma nel riferimento ai modi di pensare e di agire, alle credenze e alle pratiche, insomma all’universo dei simboli di un popolo, un gruppo, una comunità. Questo è il senso antropologico della parola “cultura”. Ebbene la domanda: “ci serve la parola cultura?” è pertinente in quanto è posta oggi proprio dagli stessi antropologi. Quando i padri dell’antropologia introdussero questo concetto, in Occidente l’idea corrente era che “umanità” nel senso pieno del termine era solo dei popoli occidentali. A tutti gli altri mancava qualcosa — poco o molto — per essere considerati pienamente umani. Grosso modo, e senza entrare troppo nel dettaglio, l’idea che “Noi” fossimo portatori della Civiltà e gli altri di barbarie o roba simile, era piuttosto comune. Furono gli antropologi a scompaginare le cose, invitando, sulla base dei loro studi, a riconoscere a tutti i popoli del mondo la dignità di essere portatori di cultura, sia pure con differenze di sviluppo evolutivo. In più di centocinquant’anni di storia il concetto di cultura ha fatto passi da gigante e oggi è una parola diffusissima, che sta dappertutto e che è usata per qualunque occasione. Ma gli antropologi da un po’ di tempo la guardano con sospetto. Perché è diventata politicamente ambigua, quasi pericolosa. Vediamo perché.
(Nei dibattiti che a volte sorgono a seguito delle mie newsletter di “antropologo a domicilio” (per la verità non tantissimi, mi piacerebbe fossero più numerosi), emergono a volte usi “rischiosi” del termine “cultura”. È per questo che dedico questa n. 46 al problema.)
Se io parlo di “cultura maori”, da una parte giustamente attribuisco a quel popolo un suo modo culturale di stare al mondo (credenze e pratiche), dall’altra rischio di chiudere in una “etichetta-gabbia” tutti i maori, senza distinzioni. Ma i maori sono un popolo remoto, persino esotico, forse se cambio esempio riesco a essere più chiaro, a far cogliere meglio le conseguenze dell’uso del termine “cultura”. Passo allora all’esempio della “cultura napoletana”. Ebbene, se uso questa etichetta indiscriminatamente (cioè se dico: “i napoletani sono così e colì…”) corro tre rischi di “cecità”:
a) non vedo più che i napoletani sono anche italiani, europei, ecc., cioè taglio dalla loro vita una serie di altre appartenenze culturali;
b) costringo ogni singolo napoletano a entrare nell’etichetta, magari a forza. Se trovo un napoletano che non rientra in quell’etichetta, quasi mi apparirà “strano”. Per esempio: “ma come, sei napoletano e non ti piace la pizza?”. Cioè visto che entri in quell’etichetta, allora ti deve piacere la pizza, il mandolino, l’”ammore”, la mamma, eccetera. Questo in positivo. In negativo: se sei napoletano, devi essere sfaticato, ladro, camorrista, eccetera. Dunque, con il termine “cultura”, rischio di spingere le persone sotto un’etichetta che toglie loro ogni possibilità di essere un’altra cosa da ciò che l’etichetta dice. E di conseguenza la “cultura” diventa una specie di “natura”, che dalla nascita alla morte non si modifica, come se fosse il cuore, il sistema sanguigno, l’apparato nervoso;
c) non riesco a vedere che la “cultura” non è un blocco omogeneo, che in essa esistono contrapposizioni, che vi sono gruppi e persone che lottano per il cambiamento culturale. Per esempio, se dico che nella “cultura islamica” la donna è inferiore, non vedo più che nei paesi islamici vi sono lotte femminili e persino femministe per una maggiore emancipazione della donna. E finisco per dare involontariamente una mano alle forze maschiliste contro cui queste combattono. Oppure, se dico che la “cultura rom” spinge al furto, o quella marocchina all’aggressività, non vedo più — cioè metto le bende davanti ai miei occhi — che vi sono rom che non sono mai stati sfiorati dalla tentazione di rubare e che vi sono marocchini assolutamente tranquilli. Come lo sono i calabresi, i napoletani, i milanesi, i maori. Divisi tra tendenzialmente aggressivi e pacifici (e tra ladri e non, maschilisti e non, eccetera). Questo è soprattutto vero in un mondo globalizzato qual è il nostro attuale, in cui nessuno è più immobile in un paesello isolato sul cocuzzolo della montagna.
La cultura insomma non è una gabbia in cui le persone sono bloccate dalla nascita alla morte. Vivendo nel proprio contesto, ogni persona assume fin da piccolo “modelli culturali” (ecco la parola chiave). Ma la vita si muove, soprattutto oggi, è esposta a influenze globali. E allora ogni persona adatta i suoi modelli culturali, li trasforma, li incrocia con i nuovi modelli con cui entra in contatto, li “meticcia”. Insieme agli altri del suo gruppo di riferimento o anche da solo. Capita pure certe volte che li blocchi, i suoi modelli culturali, li ossifichi conservativamente (magari proprio per paura del nuovo), li difenda fino al fanatismo identitario. Però ciò non dipende dalla “cultura”, ma dalle singole persone o dai sottogruppi. Oppure è una reazione all’etichetta che gli altri gli appioppano (uno studente cinese si laureò con con me con una tesi in cui dimostrava che le “seconde generazioni” di cinesi a Roma, cioè cinesi nati in Italia, spesso tornavano a modelli culturali chiusi in reazione al fatto che i loro coetanei romani li trattavano da “cinesi”).
Dobbiamo imparare a sganciare la parola “cultura” dai concreti esseri umani, dai concreti individui. Che non si identificano mai con la cultura-etichetta. Magari usando al posto di “cultura”, “modello culturale”. Metti che il napoletano che vive al piano di sopra del mio condominio mi inviti a cena, se non lo chiudo nella “cultura napoletana” sarò in grado di riconoscere in lui — come persona concreta — modelli che richiamano la cultura napoletana e modelli che invece non hanno niente a che fare con quella. Invece di farmi trovare la pizza, mi presenta un piatto di cuscus, perché dopo un viaggio in Nordafrica — mi dice mentre mangiamo — si è innamorato di quella cucina e ora ne è diventato cultore. Non dirò di conseguenza che è un napoletano “strano”, ma semplicemente che vive, e vivendo incorpora modelli, li muta, li meticcia. Metti poi che un altro giorno mi inviti a cena il marocchino del quinto piano e mi fa trovare uno spaghetto aglio e olio all’italiana poiché, mi dice, da quando è in Italia ha imparato a gustare la nostra cucina. Bene: non sarà un marocchino “traditore” (e questo vale eventualmente per l’assenza in lui di maschilismo, fondamentalismo, fanatismo, eccetera). Le persone vivono e per questo cambiano: gusti, modi di pensare, di fare, cioè “modelli culturali”. Alcuni velocemente, altri lentamente, secondo le proprie scelte, le proprie opportunità, la propria storia. Perché gli esseri umani non hanno una “natura” ferma alla nascita, un dna che li fa napoletani, marocchini o maori. Sono esseri di storia, non di natura.
E quando la storia sembra ferma, tanto da apparire come una natura, non è tanto per le scelte individuali, quanto per i poteri che bloccano il mutamento culturale. Può il popolo saudita accedere a modelli culturali meno maschilisti se il potere della dinastia che controlla il paese ha tutto l’interesse a mantenere come dominante il modello della supremazia maschile?
Il concetto di cultura ha forse fatto il suo tempo. Oppure va usato con molta parsimonia e molta oculatezza. Altrimenti porta acqua al mulino dei razzisti. E non è il caso che lo facciano le donne e gli uomini che invece hanno deciso di rimanere umani. Anzi di diventarlo di più.
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