Antropologo a domicilio n°66 31.11.2020

Fa davvero impressione il fiume di lacrime e di cordoglio che si è manifestato alla morte di Diego Armando Maradona. In quasi tutti gli angoli del mondo. Coinvolgendo miliardi di persone. Ma come è possibile, ci sarebbe da piangere per tanto altro dolore nel mondo, e si piange la morte di un uomo che dopo tutto ciò che di speciale ha fatto, lo ha fatto con i piedi? Sono in tanti ad averlo detto o anche solo pensato. Ma sono una minoranza. Che si è tirata fuori dalla moltitudine dei piangenti. Perdendo un’occasione di piangere insieme agli altri. Piangere insieme — come ridere insieme, del resto — non è un futile abuso della fisiologica necessità individuale di esprimere il dolore che si prova per un evento. E uno dei fondamenti della socialità umana. Piangere non è un’azione solitaria, ma condivisa. D’accordo, si piange da soli, nell’intimo, e persino si ride in solitudine, guardando un film comico per esempio, chiusi davanti al monitor. Ma quando avviene si tratta di derivazioni secondarie. Sottoprodotti imposti da stati di necessità. Surrogati. Piangere e ridere sono soprattutto espressioni sociali. Guardiamo i bambini nella culla o poco più grandicelli: se in una nursery un neonato piange, in breve si alzerà un coro di pianti di tutti i neonati presenti, contagiati dal pianto del compagno. Se a un bambino di poco più di un anno mettiamo davanti un giocattolo, pure attraente, e mettiamo davanti la mamma, il bambino sorriderà o riderà alla mamma piuttosto che al giocattolo. In altre parole riderà non per l’oggetto, ma per l’affetto, non per il possesso ma per il legame con la mamma. E questo per il resto della vita. Piangiamo e ridiamo (e sorridiamo) per gli altri e con gli altri, e in questo modo è come se dicessimo: “sono qui con te”, esprimiamo il legame sociale, e ci aspettiamo di essere corrisposti: “io ti abbraccio e mi aspetto che tu mi abbracci”. Cioè, non ci sentiamo soli, perché non vogliamo sentirci soli. Vinciamo la paura dell’abbandono. Superiamo l’angoscia della solitudine. Tra le più antiche manifestazioni sociali che emergono dalla preistoria, e le più diffuse in tutti i popoli del mondo ancora oggi, i rituali di cordoglio per la morte di qualcuno sono i più presenti, i più importanti. I più decisivi per le civiltà scomparse come per quelle in vita. Piangere un re morto non era piangere per un dolore personale. Anche se il dolore personale c’era. Ma era soprattutto piangere insieme agli altri per l’attacco che la morte del re sferrava al vincolo sociale che teneva unita la collettività. 
Piangere insieme e ridere insieme sono esercizi di umanità.
E dunque piangere Diego Armando Maradona non è solo piangere uno che che dopo tutto ciò che di speciale ha fatto, lo ha fatto con i piedi. È molto, molto e ancora molto di più. Specialmente in un momento così drammatico per il mondo intero. In cui il vincolo sociale è duramente messo a rischio dalle paure collettive del contagio. Cioè paure che la stessa esigenza di socialità che ci spinge ad incontrare gli altri, ad abbracciarli se ci siamo in rapporti di affetto, o solo anche a starci bene, e vicini e amichevoli, questa stessa esigenza deve essere repressa, impedita proprio per evitare il contagio. Prendo da una nota di giornale: “prima della partita del Tre Nazioni di rugby tra Argentina e Nuova Zelanda, gli All Blacks hanno eseguito la loro tradizionale danza maori in segno di rispetto verso Diego Armando Maradona. Il capitano neozelandese Sam Cane si è staccato dalla formazione per posare a metà campo la maglia nera degli All Blacks con il nome e il numero 10 di Maradona”. Avversari sul campo uniti dallo stesso cordoglio. Senza fondamentalismi. Senza irrisione degli eroi avversari. Uniti da un cordoglio che hanno voluto condividere insieme agli argentini. Pensiamo in contrasto alle immani guerre — neppure scomparse — che si sono combattute nei secoli in nome di un dio che escludeva il dio dei nemici. Prima di concludere sulla futilità del cordoglio per la morte di Maradona, riflettiamoci.
Però per alcuni rimane l’impressione di sproporzione tra questa enorme corrente di cordoglio che ha attraversato in pratica l’intera umanità — a differenti livelli di intensità, ovviamente — e l’effettivo oggetto del cordoglio: la morte di un calciatore. A fronte delle innumerevoli ragioni di cordoglio ben più importanti che vi sarebbero nel mondo. Ma chi avverte questa impressione, o ne ha proprio una chiara opinione, forse si lascia influenzare da un’idea di umanità che si riduce alla sua sfera razionale. Dimenticando che le correnti profonde che uniscono — o dividono — gli esseri umani, quasi mai sono controllate e neppure orientate dalla razionalità. E che questo non è un bene o un male, semplicemente è ciò che siamo. In aggiunta direi che se davvero fossimo — o dovessimo essere — interamente controllati dalla razionalità, le cose si metterebbero persino peggio per noi esseri umani. Perché scomparirebbero l’arte, scomparirebbero i legami affettivi, scomparirebbe persino la creatività. E una volta che la razionalità si imponesse come unica legge delle società umane, emergerebbero ben presto i suoi limiti. Poiché il fondamento della razionalità non è razionale. E mi fermo qui, non voglio scivolare in ragionamenti filosofici che ci porterebbero lontano.
Torno a Maradona.
Pep Guardiola, allenatore del Manchester City, ha detto in conferenza stampa di aver visto uno striscione un anno fa: “non importa ciò che hai fatto nella tua vita Diego, ma ciò che hai fatto alle nostre”.
Diego Armando Maradona ha dato gioia in vita e ha dato cordoglio in morte, cioè ha consentito esercizi di umanità a miliardi di persone. E non è una bazzecola.
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