
Antropologo a domicilio n°31 (24/112/2017)
Insomma è Natale. E non voglio aggirarlo parlando d’altro. Anche se richiede riflessioni problematiche. Perchè Natale oggi è un problema (dal greco pròblema: mettere avanti, proporre), non solo una festa. Non penso tanto ai credenti (anche per loro peraltro il Natale dovrebbe essere “problematico”) ma ai non credenti. Perchè intanto Natale c’è, invade le strade, i mercati, satura gli schermi televisivi, strombazza nei social. E poi perchè, visto che c’è, fa pensare (se uno non ha rinunciato a pensare). Certo, la tentazione è un’altra. Poiché in questi giorni basta solo qualche click di telecomando tra i canali televisivi, per rimanere invischiati nella melassa zuccherosa del festivo natalizio. Auguri mielosi, dolcetti burrosi, ipocrisie festose che scandiscono il tempo di approdo alle feste natalizie e capodannesche. E questa melassa poi fa da sottofondo all’ossessione compulsiva alle spese, ai regali, alle “contabilità” delle relazioni amicali, parentali, sociali. C’è n’è abbastanza per ritrarsi da questa festa. Luther Krank, protagonista di Fuga dal Natale, di John Grisham, dice: “come sarebbe stato bello evitare il Natale, uno schiocco delle dita ed è il due gennaio. Niente albero, niente compere, niente regali inutili, niente mance, niente confusione e impacchettamenti, niente traffico e folle… niente spreco di soldi».
Eppure si perde qualcosa nell’odio per le feste. Si rischia di buttare il bambino insieme all’acqua sporca.
Quando Ernesto De Martino, il più grande antropologo italiano, scriveva agli inizi degli anni Sessanta del secolo scorso delle “apocalissi culturali”, aveva chiari davanti un progetto e l’attesa di un’”altra” società. Oggi non c’è nessun’altra società all’orizzonte. Solo stanchezza, rifiuto, paura. E nessun soccorritore che viene a cavallo di un destriero bianco a portarci il futuro.
Per questo io salverei il bambino che è insieme all’acqua sporca delle feste natalizie. Non butterei via tutto.
Perchè queste feste contengono un nucleo profondo di valorizzazione della socialità positiva e dei “ritmi condivisi” che forse vale la pena di salvare. Gli antropologi hanno insegnato che le feste della fine di un ciclo temporale e dell’inizio di un nuovo ciclo hanno avuto una straordinaria importanza nelle società contadine e pastorali del passato. Poichè in queste società il tempo era percepito come ciclico, cioè seguiva l’andamento circolare delle stagioni più che l’inesorabile freccia rettilinea del tempo che fugge via. Ed è anche per questo che le feste di fine anno — Natale e Capodanno — sembrano inutili nella nostra epoca in cui il tempo è la freccia rettilinea che conosciamo. O utili solo al consumo, al consumismo, alla macchina economico-produttiva.
Però il nucleo profondo, che c’è, non è del tutto vano nel nostro mondo attuale. Forse.
Non è una festa come le altre, il Natale, su questo non ho nessun dubbio. Al centro del Natale vi sono immagini non banali. Almeno due: l’attesa e la nascita.
La nascita. Già la presenza stessa del nascere sembra che in Italia sia ormai residuale. Decrescono le nascite, ci dicono anno dopo anno i report statistici. E quelle che rimangono sono assalite dai problemi del lavoro materno. E dai costi dei pannolini, del latte, dell’assistenza pediatrica. La nascita sembra più che altro una sciagura oggi in Italia. O nei casi migliori una realtà obsoleta. Una memoria d’altri tempi. Eppure il nascere è l’orizzonte di vita di una società sana.
La nascita. Ma voglio qui riferirmi soprattutto alla costellazione simbolica che essa si trascina dietro.
Al ri-nascere, per esempio. Al ri-cominciare.
In passato il Natale, il Capodanno, l’intero ciclo delle feste invernali erano un ricominciare tutto. Lavori, tempo, rituali, l’intero mondo culturale e sociale. Oggi non avrebbe senso un tale “ricominciamento”, poichè non abbiamo più nè le esigenze materiali (il tempo ciclico del lavoro contadino e pastorale), nè i contesti religiosi (le religioni contadine) che lo esigevano allora. Siamo immersi in un tempo che da una parte è statico (il presente percepito come assoluto) e dall’altra è ingannatore (il tempo fugge via con una velocità mai immaginabile in passato).
Ma allora cosa si può “ricominciare” in un tempo che è fermo e al tempo stesso corre alla velocità della luce?
Questo è un bel pròblema.
Che chiama in causa condizioni materiali di possibilità di azione. O impossibilità: ha senso “autoingannarsi” con l’immagine di un “ricominciare” — ci si potrebbe chiedere — quando è ovvio che è impossibile in un mondo ingessato?
Però questo pròblema chiama in causa non solo condizioni materiali di (im-)possibilità, ma anche le percezioni negative del “fare”, gli orizzonti di senso esauriti, insomma la “sovrastruttura” culturale che angustia il nostro tempo presente. Chiama in causa cioè un clima piscologico e culturale frustrato, cupo, rassegnato (o rabbioso: ma è solo l’altra faccia della rassegnazione). La paura del fallimento è già fallimento. Perchè paralizza ogni spinta a provarci (se una lezione viene dal Sud del mondo che si riversa nel Nord ricco è che da quelle parti la spinta a provarci non s’è esaurita. Nonostante le pessime condizioni materiali, laggiù la percezione che le persone hanno degli orizzonti di vita è ancora aperta). Con la paura non si nasce-ri-nasce-ri-comincia. Con la paura viene a mancare la necessaria spinta creativa. Dico: creativa. Rinascere è agire creativamente nella propria vita. E in quella sociale.

E ora la seconda potente immagine del Natale: l’attesa. Che nel ciclo festivo natalizio è incarnato dalla “vigilia”.
La vigilia è un tempo dell’attesa. Per i credenti, di una nascita divina. Carica di significati. Ma un senso c’è anche per i non credenti. Per una strana ma non rara inerzia della storia culturale, la vigilia è un’esperienza che continua anche per coloro che non hanno quadri religiosi di riferimento. Non bisogna credere nel bambino divino per festeggiare la vigilia di Natale. E cosa si festeggia in questo tempo dell’attesa della vigilia, se non la nascita di Gesù?
Niente. O meglio tutto ciò che c’è di essenziale tra gli esseri umani fuori da ogni quadro religioso: la socialità degli affetti. Degli amanti, degli amici, dei parenti, delle persone con cui si sceglie di stare insieme. Dunque niente di esterno al cerchio di coloro che si sono uniti nella vigilia (in questo soprattutto sta la differenza con i credenti. Per i quali la vigilia è attesa di un evento esterno a coloro che attendono).
Dunque la vigilia è attesa. Di niente che succederà. Perchè tutto ciò che dovrà succedere sta già succedendo. Ed è lo scambio di intimità che sta succedendo, è il grado di affetti possibili nel gruppo che sta succedendo, è il fatto di ritrovarsi tra quelli più o meno scelti proprio in quella notte e per fare insieme vigilia. Il più delle volte intorno a un tavolo. In un convivio. È questo che sta succedendo. Niente di più e niente di meno.
Per coloro che ci sono stati non cambia niente della vita “vera”. Non cambiano le difficoltà finanziarie, non cambiano i rapporti frustranti di lavoro o la sua assenza, non cambia la salute zoppicante, non cambiano le aspettative frustranti di un incerto futuro. Non cambia niente.
Eppure quella sera, quella notte, nell’attesa di qualcosa che non succederà, sorge un tempo nuovo, nè ciclico nè rettilinio, ma istantaneo, un tempo in cui stare insieme è tutto, e tutto accade nell’istante in cui si sta insieme. Questa è la vigilia (del Natale, poichè a Capodanno si attende qualcosa: il nuovo anno). Che è un tempo speciale, che non ha paragoni in nessun’altra festa, risucchiate come sono le altre feste nel tempo del consumo. Perchè è il tempo dell’attesa comunitario — non individuale — perchè è il tempo in cui tutte le altre occupazioni vanno dietro e si mette avanti e al centro la socialità compartecipe. Una volta all’anno si attende un evento che consiste nell’attendere stesso di un gruppo di persone che hanno scelto di stare insieme. Cosa sta per succedere? potrebbero chiedersi, niente, sarebbe la risposta, ma sta per succedere.
È ovvio che in questo niente che sta per succedere c’è l’eco lontana della nascita di Gesù bambino. Che invece che “niente” è il suo esatto contrario, è il “tutto”, cioè è l’evento che apre la redenzione, che è tutto per i credenti. È ovvio. Ed è ovvio pure che questa eco è appunto lontana. Ma parla. E dice che nel buio cupo del gelido inverno nasce una luce che promette redenzione. Lo dice e non si può negare che lo dica, anche se l’evento che questa eco riverbera non è più creduto vero. Ma la sua eco continua a promettere la redenzione. E la promessa è ora nelle mani e nei corpi delle persone che al convivio attendono insieme. Esse soltanto possono agire per la “redenzione”. Delle loro vite. E di quelle degli altri.
A me pare che credenti e non credenti possano sedere vicini in questo ciclo di feste. Se vogliono trovare ragioni di comune spinta ad aprire i necessari orizzonti di futuro, che oggi sembrano mancare insieme alla Nascita.