
Antropologo a domicilio n°67 (21.12.2020)
“Oggi e qui, il nostro scopo è di arrivare a primavera. Di altro ora, non ci curiamo. Dietro a questa meta non c’è ora, altra meta”. Primo Levi, ad Auschwitz. Nell’’inverno duro del lager. “Al mattino, quando è ancora buio, tutti scrutiamo il cielo a oriente a spiare i primi indizi della stagione mite, e il levare del sole viene ogni giorno commentato: oggi un po’ prima di ieri; oggi un po’ più caldo di ieri; fra due mesi, fra un mese, il freddo ci darà tregua, e avremo un nemico in meno”. Primo Levi, qui interprete di un sentimento collettivo presente tra gli internati nel lager duro più duro di ogni nostra immaginazione. Primo Levi, qui cantore di ciò che salvò dalla disperazione coloro che poi riuscirono a sopravvivere: (e rese più sopportabile la vita a coloro che non ce la fecero): la prospettiva temporale. In altre parole la speranza del futuro.
Noi contemporanei siamo lontanissimi da quel sentimento. Noi viviamo nella prigione del presente. Perché noi siamo vittime di un furto di massa, un furto epocale: a noi è stata rubata la prospettiva temporale, in altre parole l’idea, meglio, la speranza del futuro.
Guardate i politici. Quasi nessuno è più in grado di lanciare una idea di futuro da costruire, tutti concorrono a definire il tempo presente del consenso dei sondaggi. Qui, tutto e subito. Come se non esistesse un domani. Un progetto, un futuro (ahi lo stento, ahi la difficoltà a immaginare un progetto di paese per il Recovery Fund!).
E guardate infatti come è mortificato il domani dei giovani. Pagheranno un immenso debito e in più rischieranno di avere un paese a pezzi.
Guardate la pubblicità. La sua logica è l’invito ad acquistare e consumare qui, tutto e subito. Non appartiene alla pubblicità la dimensione della prospettiva.
Guardate la macchina dei media. Tutto si produce e consuma (e distrugge) subito, per l’audience immediata, persino le serie, progettate per un arco temporale ampio, le puoi scaricare e vedere di seguito.
In questo orizzonte schiacciato sul presente ci sono arrivati addosso il Natale Covid e le Feste Covid in cui, chiusi in casa e limitati, proprio il presente ci è interdetto. Uh! Catastrofe planetaria. Come se questo fosse l’ultimo Natale della nostra vita. Come se non esistesse una possibilità, un’idea, una speranza di futuro.
Eppure nell’idea stessa del Natale non è contenuto il vincolo del presente, ma la prospettiva del futuro. Per i credenti, il Natale è una nascita divina destinata a cambiare il mondo. Ma non qui, tutto e subito. Nel futuro.
Non è un compimento il Natale, ma una promessa, non è un’acquisizione ma una prospettiva: è un orizzonte futuro che viene aperto, non è una saracinesca che viene spalancata e tutti dentro a consumare il consumabile, a depredare il depredabile. È una luce che si intravede in fondo al tunnel.
Ma la nascita in sé — ogni nascita — è una promessa di un poi, di un domani, di un futuro. Da raggiungere con un impegno.
In passato, per i nostri avi, la nozione del tempo era presa da quella dei contadini, i quali non consumavano qui, tutto, subito. Lavoravano oggi per domani. Seminavano a settembre per raccogliere a marzo. Aspettavano. Fermi, immobili, d’inverno aspettavano senza farsi prendere da ansie. Aspettavano che in primavera, in estate venisse il meglio. Erano formiche. A quel tempo le cicale erano disprezzate. I dilapidatori di eredità per esempio, che consumavano subito e rimanevano al verde. Stupide cicale. Degni di merito invece erano quelli che impegnavano la vita presente per una vita migliore futura. Per sé e, soprattutto, per i propri figli. E le utopie collettive, cos’erano? Rinuncia al presente per la costruzione del futuro. Questa era la vita, questa era la mentalità, questa era l’intelligenza aperta dei nostri avi. Ma le formiche sono scomparse nel panorama del nostro mondo. Vi sono solo cicale. Noi siamo cicale. Invitati, anzi orientati, peggio eterodeterminati a essere cicale di consumo qui, tutto, subito. E dunque ci viene impossibile essere costretti a rinunciare a un presente delle Feste qui, tutto e subito. Ci appare una catastrofe irrimediabile. Perché è scomparsa nella nostra vita la prospettiva del futuro. Monchi di prospettiva temporale come siamo, ci sentiamo vittime di un’atrocità. La proposta (o imposizione, poco cambia) di rinunciare a qualcosa oggi per riprendere una vita migliore domani ci appare un sopruso insopportabile
Già sento le orecchie che mi fischiano e qualcuno che dice: “ e chi mi garantisce che domani sarà migliore?” Nessuno, ma dipende anche da te, non aspettartelo solo dagli altri. In generale è così.