Antropologo a domicilio n°99 (27.5.2024)

In Australia si è celebrato ieri il National Sorry Day. Si tiene il 26 maggio di ogni anno, dal 1988: innanzitutto come domanda di perdono per l’allontanamento di bambini aborigeni australiani dalle loro famiglie, avvenuta violentemente a cominciare dal 1869 e fino al 1969, e poi per i maltrattamenti inferti al popolo aborigeno.
Certe volte bisogna dire le cose senza sfumature e distinguo. È un rischio, perché la realtà è sempre complessa e ogni tentativo di conoscenza ha bisogno proprio di sfumature e distinguo.
Però certe volte bisogna dirle le cose. Almeno tracciare una cornice entro cui poi introdurre le sfumature e i distinguo.
C’è un conto da pagare. Da cinquecento anni c’è un conto da pagare. Forse tocca alle nostre attuali generazioni e alle prossime pagarlo. Spero non in maniera distruttiva.
Quando Colombo sbarcò nel nuovo continente non aprì solo un’epoca storica di viaggi e “scoperte”, ma anche di conquiste e saccheggi. La ricchezza del nostro mondo-ricco si fondò sulla dilapidazione delle ricchezze altrui. Il capitale che fu necessario per lo sviluppo del capitalismo in gran parte fu preso nelle terre “scoperte” e conquistate. Ci furono, certo, spirito imprenditoriale e tecnologia (e capacità militari). Ma senza quelle risorse depredate lo sviluppo prodigioso della ricchezza nei paesi occidentali sarebbe stato impossibile.
Colonialismo e imperialismo, ecco: per cinquecento anni è andata così. E quando l’impresa coloniale finì, fu sostituita da regole economiche e finanziarie (e imperiali) che continuarono ad assicurare i flussi di ricchezza verso i paesi già ricchi.
Quando poi l’impiego delle classi lavoratrici occidentali divenne meno conveniente, il sistema produttivo occidentale si rivolse a quei paesi una volta colonizzati e poi “liberati”, creando forme di vera e propria schiavitù, assicurata da regimi locali corrotti e conniventi. Fu la deindustrializzazione nei paesi occidentali e il trasferimento produttivo nei paesi esotici.
Ma prima o poi questo sistema doveva arrivare al capolinea e i nodi al pettine. Ci siamo arrivati. Ci siamo arrivati oggi. Paesi del mondo non occidentale hanno guadagnato potere a sufficienza per chiedere all’Occidente nuove regole. Spesso lo chiedono nei modi non conformi agli attuali valori occidentali, cioè fuori dalla democrazia, fuori dal rispetto dei diritti umani. Ma l’Occidente ha due pesi e due misure: quando conviene ai suoi interessi, proclama i diritti. Ma quando gli interessi vanno in tutt’altro senso dalla difesa dei diritti, se li scorda. È cronaca quotidiana.
Ora però l’impellenza è ciò che gli altri dicono all’Occidente: ora basta, non potete decidere tutto voi, ci siamo anche noi. Politiche di potenza (vedi la Cina) voltafaccia (vedi un buon numero di paesi africani) nuove alleanze che escludono l’Occidente (vedi i Brics: Brasile, Cina, India, Russia, Sudafrica).
E c’è dell’altro. Alle parti del mondo per secoli dominate, sfruttate, saccheggiate, abbiamo per decenni dato immagini di noi belli, ricchi e soddisfatti: immagini spesso fasulle, perché dalle nostre parti la povertà c’era e cresceva, e cresce. Però ora da quelle parti del mondo vengono a milioni e bussano alle nostre porte dicendo: vogliamo una vita degna e dignitosa, vogliamo mangiare tutti i giorni e dare un avvenire ai nostri figli.
Sullo sfondo, le sempreverdi guerre, le distruzioni, i saccheggi. E le armi per farli. E l’industria delle armi che prospera, che non conosce crisi, anzi s’ingrassa. E la gente che scappa, che non può vivere sotto le bombe, non può dormire se non ha più casa, non può mangiare se non ha più cibo.
E ci chiede di aprire le nostre porte. Lo fa umilmente, rassegnata ad occupare gli ultimi gradini delle nostre scale sociali.
Però ciò che implicitamente ci sta chiedendo è di saldare finalmente il conto di cinquecento anni. E prima o poi dobbiamo rispondere.
I nostri politici, furbi ma miopi, ci assicurano che tutto rimarrà invariato: “prima Noi!” ci dicono. E noi li votiamo. Ma davvero pensiamo che gli altri si contentino per sempre delle briciole? Davvero pensiamo che un mondo sbilanciato nell’ingiustizia non crollerà prima o poi? Non sarebbe il caso che cominciassimo ad aprire gli occhi, anzi spalancarli e chiedere ai nostri politici non di metterci in prima fila, ma di chiamarci a un impegno per un mondo meno ingiusto? Non pensiamo che sia anche nel nostro interesse, per le nostre generazioni future?
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