
Anche questo 2025 si apre in mezzo alle guerre. Ciò che di esse più di tutto mi turba sono le vite innocenti che travolgono. Penso che sia nostro dovere, di paese in pace (ci si augura per sempre), prima ancora di valutare gli obiettivi di una guerra, di riflettere - senza mai smettere - sui suoi costi umani.
Ho visto recentemente un film norvegese, “Numero 24”, di John Andreas Andersen, bello in quanto problematico, sulla Resistenza di quel paese al nazismo. Mi ha riproposto alcune domande che io qui voglio girare a chi mi legge, senza dare – qui e per ora - a esse una risposta chiusa. Preferisco che aleggino come domande. E che si trasformino in altre domande. Preferisco che eventualmente se ne discuta, consapevoli che non c’è una sola risposta e che comunque nessuna può essere definitiva, come mostra il dialogo della sequenza del film che qui ripropongo.
C’è un eroe della resistenza norvegese, Gunnar Søstenby, che parla ai ragazzi di una scuola. Testimone della resistenza, continua a diffonderne i valori. Come in Italia fanno tanti testimoni della Resistenza o, su un altro versante, della Shoah. Nel film c’è un dibattito dopo la conferenza di Søstenby, che si sviluppa sulle implicazioni della guerra quando fa smarrire le sfumature e rende tutto bianco o nero. Amico o nemico. E innocenti o colpevoli.
Nel corso del dibattito si alza una ragazza e pone una domanda in merito a ciò che avvenne dopo che il gruppo di Resistenza di cui Søstenby era il capo, uccise il comandante Marthinsen, nazista norvegese che aveva inviato oltre 700 ebrei norvegesi nei lager e altre migliaia ne aveva maltrattato brutalmente. A seguito di quella esecuzione i nazisti uccisero ventotto persone, tra cui norvegesi non impegnati nella Resistenza. In Italia conosciamo l'eccidio delle Fosse Ardeatine, in cui i nazisti trucidarono 355 vittime innocenti, come rappresaglia all'agguato partigiano di via Rasella.
- A suo parere, quante vite era giusto sacrificare per uccidere il comandante Marthinsen?”
Su questa domanda, il film si allontana dalla scuola e va alla scena dell’esecuzione del nazista. Poi torna alla scuola e la ragazza incalza il partigiano:
- Ne è valsa la pena?
- Rispondere è impossibile. Quanto vale la libertà?
Ecco il nocciolo: a una domanda così lacerante, il partigiano non dà una risposta semplice, ma pone un’altra domanda. È ciò che io penso bisognerebbe fare di fronte a temi così delicati. Non mettersi subito nel bianco o nel nero, ma lasciar fluire fuori le sfumature. Riflettere a lungo, discuterne, confrontarsi e arrivare infine, e possibilmente insieme, ai valori irrinunciabili. Nonostante il suo ruolo, Søstenby non risponde di getto: “si fa così e basta”, ma pone un’altra domanda. In realtà, lui aveva risposto alla domanda della ragazza con le scelte che fece in quegli anni. Ma non ne fa una risposta valida per tutti.
Attenzione: mai dimenticare che è grazie alla sua risposta con i fatti, e a quelle di migliaia di resistenti in tutta Europa, che noi qui e ora possiamo riflettere e parlare e prendere posizione e differenziarci, cioè grazie al fatto che la Resistenza ci consentì allora di vivere oggi in un paese e in un continente liberi, in cui non c’è solo il bianco e il nero, ma ci sono una miriadi di sfumature. Di cui questa mia riflessione è un esempio (che sarebbe impossibile in un paese non libero).
Detto questo rimangono in aria le due domande che il film apre:
Ne è valsa la pena?
Quanto vale la libertà?
(Prima di rispondere, ricordiamo che le implicazioni delle domande riguardano anche le bombe atomiche che distrussero Hiroshima e Nagasaki)