
Antropologo a domicilio n°70 (12/12/2022)
Parliamo di futuro, facciamoci riprendere dal “gusto per il futuro”, come ha detto il presidente Draghi qualche giorno fa. Ma di che futuro parliamo?
Rifletto sul passato. Quando ero bambino avevo la possibilità di stare per strada con i compagnelli o nel cortile del palazzo con i vicini o all’oratorio o anche a casa, perché le famiglie erano numerose.
Quando ero adolescente potevo scegliere tra associazioni cattoliche o partiti politici, secondo le frequentazioni, le opportunità, persino le casualità.
Quando ero giovanotto potevo districarmi tra numerose associazioni giovanili, politiche, religiose, ma soprattutto artistiche, teatrali, persino cinematografiche (i cineforum).
Insomma i primi decenni della mia vita furono sostenuti da robuste, robustissime appartenenze sociali, fatte di incontri, scontri, innamoramenti, conflitti, insomma socialità in maniera costante, continua, colmante. In questo modo sono diventato ciò che ero nel progetto evolutivo originario di essere umano: un animale sociale con un pieno di socialità positiva.
Passiamo al presente. Quale socialità viene offerta ai bambini-ragazzi-giovani d’oggi? prima e più forte di tutti la socialità surrogata dei social. Che non è socialità, poiché mancano ad essa i corpi concreti, gli sguardi, il tatto, i profumi, le pesantezze e le leggerezze della vicinanza, l’onda vivificante delle emozioni avvertite insieme agli altri nello stesso momento e nello stesso luogo, con il cielo che c’è, nuvolo o assolato, il freddo che c’è, o il caldo, o anche nell’ambiente chiuso che accoglie e abbraccia tutti insieme.
Oltre i social poco sociali, ci sono le piscine, le palestre, con orari reggimentati e soldi stabiliti per usufruirne. La socialità vi è accessoria, trascurata, ciò che conta è la prestazione. O la competizione. Difficilmente amicale.
Ci sono anche i concerti. Socialità intensa questa, a volte indimenticabile, ma di massa, confusa, prepotente più che potente. Non in grado di favorire i tempi lenti delle piccole cose, delle piccole conquiste, delle tenerezze, delle scoperte di sé in mezzo agli altri. Delle scoperte degli altri. E ancora una volta, a pagamento.
Poi i bar, le sale giochi, le discoteche, infine i grandi agglomerati mercatali. Solitudine e monotonia.
Ma dico una cosa che sembra in contrasto con ciò che ho appena descritto: è un bene che ci siano queste concrete occasioni di socialità, sia pure zoppa, è un bene. Perché almeno c’è qualcosa che si sottrae al risucchio inarrestabile del social mani-tastiera-schermo. Bene.
Ma il punto è un altro. E qui torniamo al “gusto del futuro” e di che futuro parliamo?
Di tutti i discorsi che si fanno intorno ai fondi europei soprannominati “next generation”, di next, di futuro, io leggo — ma sbaglierò e sarei felice di sbagliarmi — la centralità dell’economia-che-tutto-il-resto-porta-via. Non della socialità, non dell’umanità, ma dell’economia.
Facciamo un passo dentro un paese dell’utopia. In tale paese-che-non-c’è vengono posti al centro della vita sociale i processi formativi. La scuola, ma non solo la scuola. La gioventù e l’infanzia delle periferie urbane, dei condomini del centro, dei paesi in via di spopolamento, quella gioventù e quell’infanzia abbandonata ai social, nel paese-che-non-c’è vengono messe al centro dell’attenzione politica. E si offrono loro processi formativi. Una scuola migliore, ma non solo scuola. I processi formativi negli anni nevralgici della formazione umana — e qui torno ai miei anni formativi — sono tra pari, avvengono tra coetanei. A cui vengono offerti dalla società occasioni di incontro, contaminazione, elaborazione collettiva di nuove idee, nuovi progetti, nuovi sogni. Ed esperienze. Con l’assistenza di animatori, la consultazione di esperti (che rimangano sufficientemente in seconda, terza, quarta linea, però). Nel paese-che-non-c’è si lascia massima libertà all’iniziativa privata, ci mancherebbe, però si riconosce che c’è un interesse pubblico prioritario, che è compito della politica, ed è quello di dare a tutti (non solo a chi ha i soldi) spazi, modi e occasioni di stare insieme, incontrarsi, mescolarsi, persino fondersi e poi separarsi e rifondersi ancora. Invece che lasciare tutte le occasioni di incontro nella folla dei supermercati, nei loculi delle palestre e nelle vasche delle discoteche, l’iniziativa pubblica mira a lavorare di intelligenza e di creatività — con migliaia di star-up allertate — per fornire gratuitamente occasioni per riconoscersi umani tra umani. E lasciar fare all’umanizzazione che inevitabilmente ne viene fuori. Nel paese-che-non-c’è si apprende dal passato ciò che il passato di buono può insegnare. Perché in quel paese non si è per niente convinti che con la banda larga-larghissima delle connessioni virtuali tutto sarà risolto per il meglio, tutti connessi incessantemente: tutti soli e senza neppure se stessi, dispersi nelle connessioni. Perché in quel paese si è convinti che solo l’umano salverà l’umano.