
Antropologo a domicilio n°25(I) (25.9.2017)
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Immersi nei ritmi ecologici noi adeguiamo a essi i nostri ritmi personali, come tutti gli organismi viventi, animali e piante. Oscilliamo nell’alternanza giorno-notte, come la gran parte degli animali. Dormiamo. Ore di sonno che interrompono la veglia. Ritmo circadico.
E ci occupiamo dei bambini. Ma tutti i mammiferi si occupano dei cuccioli. “Cure parentali”.
Non siamo unici. Siamo dentro un ordine di vita che ci accomuna alle specie viventi, fino al moscerino della frutta e oltre.
Però nessuno accompagna sulla soglia del sonno il cucciolo che sta per addormentarsi, nessuno. Solo gli esseri umani lo fanno.
Nessun altro si cura della soglia della notte. Dell’oltrepassamento della veglia. Nessuno si occupa del salto nel buio che è l’addormentarsi. Noi sì. Ninna nanna ai sette venti il bambino ha messo i denti, e ne ha messi una dozzina dalla sera alla mattina.

La ninna nanna — lullaby — è la forma più diffusa di cura umana della soglia. Lo è dappertutto, in giro per il mondo. Dovunque vai, la mamma sta là. E accompagna il suo bambino. Lui parte, sprofonda nel sonno, attraversa i mondi inesplorati del suo corpo psichico, e lei (o chi si prende cura di lui) sta là, ferma, forte, stabile. Sicura. E gli parla, gli racconta, canta, culla.
Ma non è un cartone animato. Non è una mamma Plasmon, Mulino Bianco, è una persona in carne e ossa.
Che sta in un contesto di tradizioni, una cultura, un mondo di senso. E li richiama nella ninna nanna. Essa è “autorizzata” a raccontare, a pregare, persino a imprecare, mentre canta la ninna nanna. A farlo chiamando in causa la vita, la sua vita, la vita degli affetti, infine la vita del suo piccolo esserino tra le braccia.
Mè marì l’è a l’osteria
Semper bevere e giocare
E la moglie coi bambini
Semper pianger e sospirare.
È un lamento questa ninna nanna, viene dalla Brianza ma potrebbe venire da tutto il mondo, è un lamento della condotta del marito e della sorte della maritata: “Quèla che canta l’è ‘na maridada / sentila ne la os la gh’è falcàda — ò / sentila nè la os e nè le péne / la maredada no la g’à più bene -ò”.

Al bambino è offerto un lamento, dunque? Già alla nascita il dramma di una condizione di vita?
Alla mamma viene chiesto di essere se stessa. Tutto qui. Il suo mondo culturale è questo che le chiede. Di vivere. E di cantare la ninna nanna in quanto mamma, cioè di essere se stessa. Con le sue passioni, i suoi dolori e i suoi sogni. Gioia se c’è gioia, tristezza se c’è tristezza. Di essere se stessa.
Se così è, nella ninna nanna si cela un cuore segreto sorprendente. Una meraviglia. La mamma si “ricarica” proprio grazie alla funzione di sorvegliante della soglia del sonno. Si rigenera. Apre un suo personale mondo di senso e di ristoro. E di viaggio, di immaginazione, di sogno. Di vita degna. In quei tre minuti. In cui l’operazione principale è far entrare nel suo ritmo — che è il ritmo della sua cultura — la sua creatura. Farla dormire. E quando ci riesce ne gode. E ci riesce grazie alla condivisione del ritmo raggiunta. Gode del tempo condiviso.

Ma in questo tempo condiviso lei fa anche altro. Mentre si occupa del vissuto del bambino, la mamma elabora ed esprime il suo personalissimo vissuto. In quel canto. Lo esprime secondo forme condivise, personali ma non individuali. Cioè esprime il suo vissuto secondo le forme culturali previste per la vita delle mamme. E condivise da tutte le mamme.
Ma al tempo stesso sue. Quelle forme sono sue. Quel modo, quell’accento, quelle parole pronunciate proprio nel suo modo, cantate, esclamate, “sofferte”, sono sue, e suo è quel modo di cullare. E quella rabbia, angustia, amore, tenerezza, dolore sono suoi. Lei piega la cultura del suo mondo alla sua vita. Accoglie le forme tradizionali ma le adatta. Le interpreta secondo le sue necessità e il suo gusto.

Quando una mamma canta una ninna nanna si mescolano vite vissute.
Quella del bambino, catturato dal suo ritmo circadico. Che non è una partitura fissa, un programma irrevocabile del tipo: “tutti i bambini dormono allo stesso modo” (lo sanno bene le mamme… e qualche papà). Il suo vivere non è un software in azione, no, è quel modo proprio suo, di lui e non di un altro, il modo proprio suo di stare al mondo, in quel momento e in quel luogo. Con annessi mal di pancia o freddo o caldo. O rivoluzione ormonale. O fame o sazietà. E tanto altro, tutto ciò che fa la specifica vita di uno specifico bambino.
E poi c’è la mamma. La sua vita vissuta. Quella in generale e quella di quel-giorno-là, proprio quel giorno, e quell’ora, e rabbia o desiderio in essa, paura o serenità. Memoria o progetto. Il suo vissuto là in quel tempo, in quel luogo, in quel mondo.

Quando una mamma canta una ninna nanna chiama a raccolta ritmo (culturale) e musica (“etnica”), lingua (locale) e gusto estetico (culturale), e poi la condizione sociale sua e del suo bambino, e poi tutto, tutto il resto del mondo culturale. Una impressionante simultaneità intrecciata di livelli. E, in mezzo al resto, chiama in causa la sua stessa vita personale, ciò che lei è, che nessun altro è mai stato prima, e mai più sarà dopo. La sua unicità. Come quella di ciascuno di noi.
Impressionante e straordinario. Piccola meraviglia dell’esistenza umana.
(continua: la seconda parte domani)