Antropologo a domicilio n°25(II) (26.9.2017)

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Però la ninna nanna non è solo della mamme (o dei papà) per i loro bambini. Non è solo delle “cure parentali”.
La ninna nanna è dappertutto vi sia cura dell’altro. Degli altri. La ninna nanna è dei medici. Degli infermieri. Dei professori. La ninna nanna è degli assistenti sociali, di quelli spirituali. Delle “badanti”, dei mediatori culturali. La ninna nanna è degli amici veri. Dovunque vi sia qualcuno che è incerto su una soglia, che deve attraversarla, e qualche altro che gli è accanto, là c’è l’occasione di una ninna nanna.
Vi sono mamme che mettono i bambini nella culla e, piangano o meno, li lasciano all’angoscia della loro separazione. Dell’oltrepassamento della soglia. Così nella vita sociale generale. Vi sono quelli che vanno via, lasciando gli altri nella solitudine dell’oltrepassamento.
E vi sono quelli che stanno là, accanto a chi sta oltrepassando, fermi, forti, stabili, sicuri. E gli parlano, raccontano, cantano, cullano. Gli fanno la ninna nanna. Dappertutto vi sono. Gli uni e gli altri. Ogni mattina quando il mondo si risveglia, si intonano miliardi di ninne nanne. Un pulviscolo incalcolabile di ritmi, lingue, culture, persone. Non c’è solo egoismo nel mondo. C’è anche il prendersi cura degli altri, una misteriosa ninna nanna universale, c’è anche quello, e pesa nella bilancia cosmica, altro che.
La ninna nanna è il canto della nascita. Ma lo è anche della vita adulta. È la cura dell’altro che l’essere umano è capace di assumersi in carico, questa è la ninna nanna. E in essa c’è sempre un’evocazione del “proprio” mentre ci si prende cura dell’”altro”. Che non è un nascosto egoismo dietro un altruismo di facciata. La mamma non è egoista se canta i suoi dolori al figlio che s’addormenta. Semplicemente vive. Nel prendersi cura dell’altro c’è anche un prendersi cura di se stessi (è per questo che alcuni non ce la fanno: perchè hanno difficoltà innanzitutto a prender cura di se stessi, a prendersi in carico).
Ciro, quando la scossa di terremoto fa crollare la sua casa a Ischia, la sera del 21 agosto scorso, si trova vicino a suo fratello Matias, che ha 7 anni, lui ne ha 11. Lo afferra, lo spinge sotto al letto e ci si mette al fianco. Poi urla per farsi sentire dai soccorritori, e fa rumore con un bastone. Ma nello stesso tempo incoraggia Matias: “non ti preoccupare, che ora ci vengono a salvare”. In cuor suo forse non è neppure sicuro che ce la faranno, forse è terrorizzato, ma fa forza a Matias. Canta la “ninna nanna”. Si prende cura di Matias e si prende cura di sé. Ricordate Benigni in “La vita è bella”? Quello è un film. Ma le testimonianze di “ninna nanna” nei lager, nei gulag sono numerose, impressionanti: “ora vengono, ora vengono a salvarci”. Davanti la camera a gas.
Perchè anche davanti alla morte, davanti alla disperazione, continua questo straordinario lavorio del prendersi cura, del cantare la ninna nanna. Persino là.
Antonia Arslan, che ha scritto due stupendi romanzi sul genocidio armeno dei primi anni del Novecento, riporta una ninna nanna delle deportate armene nella marcia di morte verso Deir ez-Zor, “il luogo dove gli ultimi sopravvissuti sono stati seppelliti vivi in enormi buche di tipo carsico, presenti nel terreno, coperti di terra e di foglie e dati alle fiamme”:
“Stiamo marciando verso Deir ez-Zor piangendo, nel mezzo del fuoco, nel dolore. Non c’è speranza, non una luce. Canto una ninna nanna al mio bambino. Io la canto e lui dorme. Dormi dormi dormi, non pensare che la strada è lunga e il tuo cuore innocente non sarà turbato. Noi siamo esiliate, non abbiamo una casa, siamo deportate, non abbiamo un luogo, non abbiamo nemmeno Dio a giudicare. La nostra pena è senza fine. Hai pianto e sei sfinito. Goccia a goccia ti sei disseccato succhiando il mio seno asciutto. La tua anima giusta era turbata, eri stanco, stanco di piangere. Goccia a goccia te ne sei andato. Non ho più latte da darti, solo sangue esce dai miei occhi”.
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