Antropologo a domicilio n°32 (22.1.2018)

Un uomo alla tastiera in un angolo computer di un salottino. È cupo, arrabbiato, impreca contro bersagli online, è un Internet hater, uno che odia in internet, e che ha accettato di essere ripreso da una telecamera. Ce l’ha con parecchi, il governo (è inglese), la UE (ha votato Brexit), con i migranti (di loro dice che vanno travolti con le auto, specialmente quelli che scappano dalla guerra in Siria e stanno a Calais). A un tratto, entra nella stanza una donna, lui diventa immediatamente dolce, “oh, grazie amore! mi hai portato un caffè? Grazie”. La donna passa davanti l’obiettivo e va a sedersi al divano. È asiatica, è la compagna dell’uomo. Il quale odia il governo anche perché non concede a lei un permesso stabile di soggiorno. È lì per sei mesi, poi dovrà andare via. La stessa persona che dice, “non mi interessa da dove venganoi migrantise ne vadano via, vive con una migrante che ha difficoltà a rimanere con lui in Inghilterra. Internet Warriors è un video di una trentina di minuti che il documentarista norvegese Kyrre Lien ha girato per The Guardian, dopo aver passato tre anni a inseguire, dialogare, infine filmare (solo alcuni hanno accettato) odiatori seriali di Internet (ce n’è una versione con sottotitoli in italiano sul sito di Internazionale).
Per chi pensa che l’odio su Internet sia uno sfogo di frustrazioni personali e basta, un Napalm 51 alla Crozza moltiplicato per milioni: no, non è così, è una faccenda molto molto più complessa. È una “cultura”. Un modello culturale di riferimento che oggi è diventato forte e che continua a crescere. Vi sono tre elementi che lo rendono forte:
La tecnologia.
La tecnologia informatica da una parte favorisce l’individualizzazione (ognuno davanti alla tastiera e allo schermo), dall’altra moltiplica all’inverosimile i possibili contatti online con gli altri: tu puoi parlare al mondo intero con il tuo apparecchio, e ne sei padrone, nessun altro cui dare conto, retta, ragione. Tu e il mondo. Puoi liberare tutto ciò che vuoi, empatia o antipatia, sei libero. Anche se Facebook ammette solo “mi piace”, le possibilità di manifestare il contrario sono illimitate. E le difese, scarse. Su un piatto, le deboli contromisure di Facebook, sull’altro, app molto seduttive che favoriscono la manifestazione del tuo disprezzo o odio. Che ti offrono la possibilità di entrare in una community di quelli che come te odiano questo o quest’altro, persona o cosa. Ce n’è una dal nome semplicissimo ed eloquente: “hater”, “odiatore”. Basterà che tu faccia scivolare il mouse sull’immagine della persona o cosa che odi, e il sistema automaticamente ti connetterà a quelli che odiano la stessa persona o cosa. Potrai allora metterti in contatto con loro e scambiare pareri, opinioni, informazioni. Nuovi odi comuni. Ti si spalancherà un orizzonte di odio condiviso. La tecnologia ti aiuta.
La seduzione personale.
Nel mercato dei carismi mediatici, cioè nella competizione dell’audience nei media, non da oggi ma da parecchi anni, funziona colui-che-odia e che lo comunica con vigore. Funziona nel senso che fa audience. Modello Sgarbi, per intenderci. Funziona. Oltre che audience, fa appeal, fa persino voti elettorali. Perchè fa spettacolo. E spesso viene incontro a un bisogno diffuso di trovare scorciatoie davanti alla complessità del mondo. Se questa richiede che tu impari a riflettere, a ragionare fino alle sfumature di dettaglio, la tentazione di uscirne con un vaffa è alta, altissima. E le figure mediatiche del vaffaaffascinano, seducono, fanno modello da imitare. Consapevolmente e inconsapevolmente. Uno psicologo olandese, Dijksterhuis, ha fatto un esperimento davvero interessante. Ha chiesto a un gruppo di persone di focalizzare la propria mente su professori universitari e subito dopo scrivere qualunque cosa senza pensarci troppo. A un secondo gruppo ha fatto una richiesta simile, ma dopo essersi focalizzato sugli hooligans. Il risultato è stato che le capacità di prestazione culturale dei due gruppi (con un “gruppo di controllo” che stava in mezzo) hanno subito una conseguenza rilevante. Infatti a domande di cultura generale il primo gruppo ha riportato punteggi nettamente superiori al secondo. Non è stato necessario frequentare quei modelli sociali, semplicemente pensarci su. Dijksterhuis dice a commento: “dati empirici mostrano come l’imitazione possa renderci lenti, veloci, intelligenti, stupidi, bravi in matematica, pessimi in matematica, servizievoli, sgarbati, gentili, logorroici, ostili, aggressivi, collaborativi, competitivi, conformisti, anticonformisti, conservatori, smemorati, accurati, disattenti, ordinati, trasandati”.
Insomma, in linea generale se io mi concentro, diciamo, su un personaggio mediatico che si arrabbia, impreca, odia, innanzitutto ne rimarrò culturalmente influenzato, poi qualcosa mi spingerà a imitarlo. Questo non significa che lo imiterò, ma qualcosa mi spingerà a farlo. Certo, avrò poi le mie risorse di ragionamento, di valori, di etica, avrò altri modelli sociali e tipi di persone cui fare riferimento, persone che “amano”, per esempio, e sarà una bella battaglia. Però la seduzione che spinge all’imitazione rimane.
Il senso comune dell’odio.
Avete presente il diffuso attacco che viene fatto ai “buonisti”? In realtà non esiste una categoria sociale specifica di questa fatta: “buonista” non significa niente di concreto, è solo un modo per liquidare con una battuta dispregiativa uno che fa affermazioni di tipo empatico. Eppure questi attacchi sono un segnale piuttosto forte di come si sia creato un senso comune dell’odio. Senso comune: tutti pensano allo stesso modo. Ma in un modo particolare, poco “pensato”, poco riflessivo, poiché il senso comune è il pensiero-non-pensato. Cioè non individualmente pensato: è quello che pensano tutti, e quindi ci si risparmia la fatica di pensare in prima persona. Oggi, il senso comune “hater” è diventato forte, e siamo tutti esposti al suo contagio. Si odia più facilmente se tutti odiano.
Ma non è scontato che quello espresso come odio corrisponda a una risonanza interiore. In realtà questo senso comune è esterno alle persone, cioè viene da fuori, non da dentro le persone. Funziona per contagio, non per impulso interiore. In altre parole, l’odio diffuso nei social non significa che milioni di persone odiano, bensì che c’è un’aria appestata di espressioni di odio che tutti condividiamo, alla quale quasi ci abituiamo e che contagia sempre più persone.
È ovvio che quanto più l’aria si appesta, tanto più ci si abitua a essa. Come quando vivi accanto a una discarica a cielo aperto: dopo un po’ ti abituerai al lezzo. E le conseguenze a medio termine non sono piacevoli. Perché l’odio genera la paura e la paura odio. In un circolo vizioso dal quale temo dobbiamo imparare a difenderci nel presente e nell’immediato futuro.
Con la riflessione innanzitutto, il rifiuto del pensiero-non-pensato. E con il coraggio dell’empatia. Ma nessuno si salva da solo. Poi bisogna fare gruppo, fare rete di persone che non-odiano. E infine moltiplicare le occasioni per incontrare persone diverse: una vera terapia sociale. Il video “The Internet Warriors” termina con l’intervista a un ragazzo inglese, una volta odiatore seriale, che dice di aver cambiato opinione sui musulmani contro i quali si scagliava prima, perché ora lavora, e il suo collega di lavoro è un musulmano, ed è una brava persona. Dopo averlo raccontato, il ragazzo si ferma, guarda l’obiettivo, sorride e conclude “prima ero molto duro, ma le persone cambiano…. se oggi incontrassi il vecchio me stesso in un forum probabilmente litigheremmo”.
Back to Top