Antropologo a domicilio n°23 (22/9/2017)
Prima c’erano stati due acrobati cubani e tre contorsioniste tibetane, dopo ci sarebbe stato un clown argentino, in mezzo io, con il monologo “Ritmi di festa”. Ancora una volta avevo accettato un invito di un Festival di arti di strada, questo a Lonato del Garda, sulla sommità di una collina interamente dominata da un’enorme rocca medievale. Quattro sere di spettacoli di strada, nell’utopia in corso di attuazione di una “cittadinanza attiva per l’arte di strada” a favore di una “umanizzazione della città” (http://www.buonastrada.net/).
Avevo accettato perchè sono convinto che questa utopia ha un’anima concreta, uno spirito vivo nel bozzolo dell’illusione di provocare un’inversione a “U” in un movimento progressivo del mondo contemporaneo che sembra verso l’imbarbarimento.
E perchè ancor di più sono convinto che l’antropologia debba stare in strada, oltre che nelle università (e poi — auspicabilmente — nei luoghi dei beni culturali, della salute, delle istituzioni in generale dedicate alle vite umane), debba prendersi i suoi rischi per concorrere a una riflessione sul senso del vivere insieme oggi. Anche facendosi arte, performance, spettacolo. In strada, appunto.
Ma la prova era impari, la sfida persa in partenza. Ragazzi muscolosi che saltano in aria e volano l’uno sulle braccia dell’altro, ragazze flessuose che compongono i loro giovani corpi in forme che sembrano fiori esotici. E tanti bambini in attesa di Tomate, il clown la cui fama assicurava risate. Che ci facevo in mezzo io come un companatico sciapo tra due fette di caldo pane appena sfornato?
Ma la sfida era stata accettata e lo era per lo stesso Festival, sfida, scommessa, così mi aveva presentato Aurelio Rota, direttore artistico, oltre agli spettacoli anche riflessioni sul senso delle buone pratiche del fare spettacolo in strada, aveva detto.
Ma lo stesso Aurelio, chiuso il suo breve discorso di presentazione, aveva visto allontanarsi decine di persone, quelle che non prevedevano un antropologo prima del clown — un antropologo? e che roba è? e sul programma non c’è, guarda, l’hanno spostato, dalle 19 a ora, le 22! — e dunque pensavano di andare a prendere un gelato, curiosare tra gli stand, cercare una distrazione in attesa del clown. Ci guardiamo con Aurelio, “Ok!”, “Ok!”, mi dà un colpo sulla spalla, entro in scena. All’aperto, sulla sommità della rocca, nel cielo buio della notte. Davanti a me sono rimasti un centinaio di persone, sedute a terra, una ventina di bambini. Non sono là per me, mi dico, ma per non perdere il posto, e comincio.
Potrei ora dire della improvvisa curiosità dei bambini per me, e della mia per loro, potrei dire dei sorrisi, dei volti incoraggianti, degli applausi alla fine (avevo preannunciato che non avrei fatto tutto il monologo, solo una parte, mezz’ora com’era il tempo degli spettacoli nel Festival, e dunque gli applausi erano stati di ringraziamento per aver mantenuto la parola, mi dico). Ma ho ben altro da dire, a questo punto del mio post.
Sto parlottando con Aurelio nel backstage, dopo il monologo, non è andata male gli dico, ma certo che no, io ne sono entusiasta, mi corregge Aurelio, di traverso guardiamo Tomate sul palco, ma è una donna che vediamo, si avvicina a noi, è seguita da un ragazzo, ha un passo incerto. Possiamo parlare con lei? mi chiede. Certo ci mancherebbe, rispondo. In verità è lui che vorrebbe parlare con lei, mi dice, e mi presenta il ragazzo, ragazzo poi! un giovanotto, più di venti anni li aveva, forse era a metà verso i trenta. Lui mi si avvicina, porta il volto a pochi centimetri dal mio, però è la donna a parlare per prima. Io non capisco, mi dice, sono sopresa, continua, non succede mai che lui segua un discorso lungo com’è stato il suo, spalanca gli occhi la donna, e non succede che poi ne voglia parlare con chi lo ha fatto, dice con un sospiro, ma è proprio questo che mi ha chiesto, tocca il ragazzo sulla spalla, lui mi ha chiesto di parlare con lei. E alla fine lui mi parla. Io voglio ringraziarla — più o meno è ciò che mi ha detto, ma le parole precise non le ricordo, per questo non virgoletto, ero emozionato, i pensieri troppo rapidi per fermare qualcosa — voglio ringraziarla perchè lei ha descritto perfettamente quello che succede quando sto con la mia amica del cuore. Si accalora, poco lontano le risate per Tomate suonano cristalline, il suo volto è sempre più vicino al mio. Io ho un’amica del cuore, sa, e quando siamo insieme è proprio come lei l’ha descritto, i ritmi, come ha detto lei, noi siamo come un corpo solo, giochiamo ed è come se fossimo la stessa cosa, la stessa persona, non c’è niente fuori posto. Io voglio ringraziarla perchè è proprio così, l’ha descritto perfettamente, perchè sa, io ho un’amica e quando siamo insieme, quando giochiamo insieme è come se fossimo la stessa persona e io voglio ringraziarla…
Non so come avessi gli occhi in quel momento, non so cosa passasse sul mio volto, so che gli occhi della donna, sua madre, brillavano, però io non sapevo di cosa. Lui continuava a parlarmi come in un affanno, per dirmi tutto, velocemente, e per lui questo tutto coincideva con la felicità di quando incontra la sua amica. E io gliene avevo parlato. E non sapevo di parlare a lui, proprio a lui, e lui aveva voluto dirmelo e poi ridirmelo e ridirmelo e ridirmelo senza sosta. Stefano si chiamava, a un certo punto quasi lo avevo interrotto per chiederglielo e lui mi aveva risposto, mi chiamo Stefano, e io Paolo, subito d’un fiato, e dopo gli ho chiesto se voleva stringermi la mano e lui me l’ha offerta subito e ci siamo stretti la mano e ha continuato a ringraziarmi e a raccontarmi di quando sta con la sua amica, e io ho guardato gli occhi della mamma ed erano diventati umidi e io non sapevo dei miei, e ho pensato che siamo sempre al di sotto di ciò che dovremmo essere, incapaci, informi, persino fuori tempo, perchè io cercavo parole e non le trovavo e continuavo a guardarla, poi guardavo Stefano che mi stringeva la mano e ciò che sono riuscito a fare alla fine è stato di passare il dorso dell’altra mano sulla guancia della mamma, una carezza rovesciata, una prova dell’inadeguatezza dello stare e del fare nel momento in cui qualcosa avviene. E per fortuna ci aiutiamo quando serve, e ci stringiamo la mano e ci guardiamo negli occhi e persino una carezza scorre tra noi.
Questa non è antropologia, lo so, non è quel precipitato di ricerca scientifica, riflessione accademica, severità metodologica che è l’antropologia. Questa è vita spalancata, sghemba per insufficienza di chi vive, sporca di fraintendimenti forse. Lo so. Però so pure che un momento come questo restituisce un senso al lavoro scientifico — intendo dire al mio, non pretendo di parlare a nome di altri — perchè, forse illusoriamente, gli dà il carattere di un’operazione per l’umano. Per sfuggire all’anatema che una volta scherzosamente lanciò Remo Guidieri, un antropologo: “l’antropologia serve agli esseri umani come l’ornitologia agli uccelli”. Cioè a niente.
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