
Antropologo a domicilio n°55 (4.11.2019)
Quando vedo manifestazioni sovraniste, vedo gioia in faccia alle persone. Se ne parla come di folle che sono prese dalla paura del nuovo, della globalizzazione, e soprattutto dei migranti. Ma ciò che vedo sembra gioia, allegria. Quasi felicità. Perché?
La paura forse c’è. Anzi c’è senza dubbio. Ma sta prima. Sta dietro. Là, nella piazza della manifestazione quelle persone stanno vivendo un’esperienza di godimento per il fatto che stanno insieme e provano sentimenti condivisi. E questo li rafforza nella determinazione a rimanere insieme.
Dietro un leader, certo. Una figura carismatica, certo. Qualcuno che è in grado di assecondare i loro ritmi di godimento.
Preoccupa, perché sembra che si ripeta un copione storico. Il Novecento ha visto numerose volte folle di questo genere. Che sono inquietanti, se si pensa a ciò cui esse andarono incontro. Dalle folle festanti per le dichiarazioni di guerra incrociate degli stati europei nell’estate del 1914, che sfociarono nella prima grande inutile mattanza del Novecento, la guerra mondiale del 1914–18. Alle folle festanti del periodo delle dittature nazi-fasciste. Con la Shoah a ricordarci cosa ne venne. Senza pensare ai cinquanta milioni di morti sparsi per il mondo. E più, molti di più, contando le immani catastrofi legate a quegli eventi bellici.
Abbiamo ragione ad avere paura di certe folle festanti, se guardiamo appena indietro di qualche decennio.
Ma questo non è un buon motivo per ignorare che quelle che oggi vediamo nelle manifestazioni sovraniste sono folle gioiose e festanti. Non è un buon motivo per non riflettere sul perché.
C’è bisogno di stare in festa con gli altri: questo è. Ce n’è bisogno come dell’ossigeno per respirare. Perché l’animale sociale che noi umani siamo cementa la sua socialità con occasioni di effervescenza gioiosa e festosa. Che sono come un grande teatro pubblico, una messa in scena in cui ci si mostra solidali, partecipi, uniti, un blocco unico. E mostrandolo lo si diventa. Qualcuno pensava che l’era dei social avrebbe ridotto se non eliminato questo meccanismo. E invece no.
Questo è.

Che folle festive abbiano prodotto gli orrori del Novecento non è una buona ragione per buttare via il bambino della festa (e del sentire condiviso) insieme all’acqua sporca della strumentalizzazione razzista o bellica.
Perché poi ci sono state anche folle festive che hanno costruito un futuro migliore, quelle del movimento operaio e sindacale, quelle del femminismo, quelle dei diritti umani e civili.
Le manifestazioni sovraniste di oggi, oltre che spaventare, dovrebbero ricordare che c’è bisogno di sentimenti condivisi, c’è bisogno persino di passioni collettive. E c’è bisogno di occasioni per esprimerle dentro feste e manifestazioni. E dovrebbero ricordare che l’idea che si possa costruire un progetto politico condiviso solo facendo appello alla ragione è folle. È il sentire comune che produce un pensare comune e non viceversa. Se non si coinvolgono sentimenti e passioni, i progetti politici appaiono solo astrazioni e cifre disumanizzanti. Come si vede nella politica europea, che ha costruito moloch finanziari, ma ha distrutto il sentimento europeista.
C’è un errore ottico nel dire “pancia” per riferirsi a passioni collettive, come se queste fossero espressioni quasi escrementizie.
Non sono pancia le passioni collettive, sono cemento. Sono accordo, sono solidarietà, sono riconoscimento di essere un Noi. E nessun movimento o partito politico può farne a meno.
La politica non si alimenta di fredde risoluzioni di circoli tecnocratici, ma di consenso appassionato. Solo se è alimentata da questo può poi lavorare con i necessari strumenti intellettuali delle competenze e delle deleghe.
I sentimenti collettivi sono orientabili dai leader e dai movimenti politici. Verso l’odio, la rabbia, la discriminazione. Oppure verso un mondo giusto e migliore per tutti. Non è facile, ma non è impossibile.
Uno degli attuali errori strategici dei movimenti e dei partiti che si richiamano a istanze di solidarietà, di pace, di democrazia e libertà, insomma di sinistra, è di aver ignorato completamente la necessità di suscitare passioni e di coinvolgere in questo modo la gente (dimenticando la lezione del movimento operaio e sindacale otto-novecentesco). E uno dei segni di questi errori sta nel fatto che le piazze sono piene per manifestazioni sovraniste e vuote o peggio neppure convocate per quelle democratiche e solidaristiche.
Viviamo in una realtà comunicativa social. Ma è un errore gravissimo pensare che il mondo tutto sia social. Noi umani abbiamo un corpo ed esso non potrà essere cancellato da nessuna digitalizzazione virtuale per quanto estrema e avveniristica. Viviamo con il corpo e nel corpo. E questo ha regole precise. La prima: ha bisogno dei corpi altrui; e ha bisogno di mettere in scena l’unità, la condivisione, il sentimento collettivo.
Compito di una politica democratica non è raffreddare le passioni, ma orientarle. È un errore pensare che ciò che conta del corpo è la mente. Non esiste una mente disincarnata, ma un corpo che comprende una mente.