Antropologo a domicilio n°12 (13.2.2017)
Insomma, una mattina leggo in un’intervista a papa Francesco: “Perdiamo tanto il senso delle cose concrete. L’altro giorno mi diceva un pensatore che questo mondo è così disordinato che gli manca un punto fisso. Ed è proprio la concretezza che ti dà dei punti fissi. Che cosa hai fatto, che cosa hai deciso, come ti muovi?” L’intervista è di qualche settimana fa. Un giornale spagnolo mi pare. Avevo annotato la citazione. Sono osservazioni di buon senso, no? Certe volte il buon senso è pericoloso, ma questo è un caso in cui il buon senso è anche senso buono. Cose concrete: cosa hai fatto, che cosa hai deciso, come ti muovi. Se rispondi a queste domande non puoi più sfuggire alle tue responsabilità, scaricandole su altro o altri: la Società, l’Istituzione, la Scuola, le Cattive Amicizie, persino Mamma e Papà che ti hanno fatto così. Infatti, scarica scarica, alla fine torna il “ma”: “ma tu? ma tu, cosa hai fatto di concreto? cos’hai deciso? come ti muovi?”. Bene, andiamo avanti.
Venerdì scorso, il 10, porto “Ritmi di festa” in una scuola, un liceo. Con sette indirizzi diversi, dal classico al linguistico, allo scientifico, allo psicopedagogico, e altro ancora. Mercato San Severino, a un tiro di schioppo dall’università di Salerno-Fisciano, dove ho passato gran parte della mia vita accademica.
Una scuola è sempre un luogo vivo di vita, pur se talvolta è anche di “mortificazione”, insomma un luogo in/su cui riflettere. Tornato a casa ho scritto un piccolo diario di campo. Gli antropologi fanno etnografia, che è il loro modo particolare di studiare, di fare ricerca. Osservano, parlano con le persone che incontrano, scrivono appunti, diari (fotografano, filmano, ecc.). Un lavoro complesso, affascinante e difficile. Dunque ho fatto etnografia. In verità non un lavoro completo, ma solo quello iniziale: detto in altre parole, ho steso appunti. E qui metto le mani avanti. Gli appunti del “campo” sono importanti ma non decisivi. Si basano molto su impressioni, sensazioni. Poi queste devono essere soppesate, confrontate. Ciò che si scrive un giorno, il giorno dopo magari è superato da altre osservazioni. E fondamentale poi parlare con le persone, e invece io ho parlato poco e non con tutti e dunque posso sbagliare nelle mie interpretazioni, l’ho detto subito e ho messo le mani avanti. Questi che seguono sono dunque i miei appunti di “campo”.
Troppi gli studenti per stare tutti assieme nell’auditorium della scuola, sono stati divisi in due gruppi. Due monologhi, il primo alle 9,30, il secondo alle 11,30. Consuntivo finale: due diversissime esperienze. Stessa-scuola, stessa-mattinata, stesso-me-stesso, stesso-monologo, stesso-ambiente. Diverso solo l’orario, troppo troppo poco per un risultato molto molto diverso. Come mai?
Primo gruppo, duecento e più studenti, cinque o sei professori (in realtà quasi tutte donne) che mi vengono incontro sorridendo, ci presentiamo, tra loro Antonietta Bertone, la prof che mi ha invitato, parliamo, arriva una studentessa, vuole una foto con me, “abbiamo parlato molto di lei in classe, sa?”, arriva la preside, arrivano altri studenti (beh, al 99% sono studentesse), ci sono tutti, dei tre settori dell’auditorium è interamente occupato quello centrale, i due laterali vuoti, decidiamo di cominciare, le prof sono sedute accanto ai loro studenti, la preside Luigia Trivisone e la prof Bertone mi presentano all’uditorio, noto la curiosità e l’attesa, comincio. Concentrazione intensa, palpabile, qualcuna prende appunti, riesco a seguire con gli occhi il movimento d’onda dell’attenzione, gli alti e i bassi lungo il percorso del monologo, un’ora di fila. Al termine numerose domande, curiosità personali, richiami ai temi forti del monologo. Un breve dialogo pubblico con la preside, le necessità e i compiti della formazione scolastica quando sono insegnate anche discipline socio-psico-antropologiche. Chiudiamo. Giù dal palco, le prof si avvicinano, ci scambiamo impressioni, commenti, mi ringraziano, salutano e tornano in classe, mi dicono che riparleranno dei temi del monologo. “Abbiamo fatto le tappe forzate per leggere il libro in tempo per oggi”, mi dice una sorridendo, “ora vedremo cosa ne ricaveranno i ragazzi”, aggiunge un’altra, “l’antropologia è essenziale” commenta una terza. Sono soddisfatto. Un break di qualche minuto, mentre arrivano gli studenti del turno successivo.
Eccoli, secondo gruppo, circa centocinquanta studenti, i primi a entrare si erano sistemati in uno dei settori laterali, poiché avevano trovato il settore centrale ancora occupato dagli studenti del turno precedente. Nessun professore mi si avvicina, ne noto due o tre in piedi all’ingresso, escono e entrano dalle porte spalancate, una prof va a sedersi nel punto più decentrato dell’auditorium, in fondo al settore di destra, non mi sarà facile girarmi verso di lei, sembra quasi voglia nascondersi. Chiedo agli studenti di spostarsi nel settore centrale lasciato vuoto, qualcuno mugugna ma molti si spostano (la prof va loro dietro). Alla fine comunque sono tanti i posti vuoti nel settore centrale, la geografia della sistemazione è frutto del compromesso tra la mia richiesta e una (apparente) loro estraneità all’evento. Mi presenta ancora Bertone, subito dopo va via perché ha un’ora nella sua classe, che mi aveva seguito prima. Mi schiarisco la voce, due parole di introduzione dal libro al monologo, noto subito un gruppo di studenti sul fondo che chiacchiera, scambia sorrisi, scherzi, maneggia smartphone. Comincio, il gruppo sul fondo neppure se ne accorge, prosegue il suo cicaleccio distratto. Vado avanti, non mi interessa un ascolto imposto, voglio capire se riesco a entrare nella loro attenzione con qualche tecnica teatrale. Entra un prof, si sistema nel settore centrale, in una zona di posti dove non ci sono studenti, nel buio della sala spicca il suo corpo nel vuoto intorno. Altri due prof, un uomo e una donna, entrano di lato, si piazzano decentrati, nel settore destro semivuoto, anch’essi un vuoto di studenti intorno. Mentre sono preso dal gruppo di ragazzi che sul fondo continuano i loro traffici scherzosi, in prima fila proprio davanti a me, una ragazza prende il mano il telefono e parla. A bassa voce, ma è impossibile non accorgersene. Dopo qualche secondo in cui le sue colleghe attorno sorridono, le chiedo se può smettere. Senza imbarazzo, quasi seccata, chiude la telefonata. Poco dopo vedo che armeggia sulla tastiera, probabilmente sta spiegando via sms al suo interlocutore il motivo dell’interruzione. Entra un’altra prof, si avvicina ai due colleghi del settore laterale vuoto e, rimanendo in piedi, comincia a chiacchierare con la collega. Ridono. Io sto raccontando una storia di lager. Evidentemente non mi ascoltano, altrimenti sarebbe un po’ difficile ridere. I prof non mi ascoltano dunque? Che ci stanno a fare là? Intanto la ragazza della telefonata ha ripreso ad armeggiare con il suo smartphone, digita, è assorta in qualcosa. La richiamo nuovamente. Non alla disciplina, ma all’occasione che forse sta perdendo, e io con lei di stabilire un contatto su qualcosa di importante. Così almeno a me sembra. Mentre parlo a lei, un prof, quello accanto alle due che chiacchierano e ridono, sfila uno smartphone dalla tasca e comincia a smanettare. Non s’è accorto che sto parlando di questo o lo fa apposta? Sono imbarazzato, cosa faccio, interrompo e apro una vertenza con quei prof? Nel frattempo cresce il disturbo dei ragazzi sul fondo, mi fermo nuovamente, li invito personalmente — “mi rivolgo a te ‘con la maglietta verde’ e a te ‘con gli occhiali che gli stai vicino’ e a te ‘con il giubbino chiuso fino al naso’, vi chiedo cinque minuti di attenzione, se poi ciò che racconto davvero non vi interessa, ok, riprendete pure a starvene disattenti, senza disturbare gli altri però”. Me li concedono. Fino alla fine mi sembrano attenti. Accelero il monologo, taglio parti, corro verso la fine. Nella sala si sono accese altre lucine di smartphone, prima due, poi quattro, quella del prof è ben visibile, lui è decentrato ma proprio per questo sotto gli occhi di buona parte degli studenti. Possibile non se ne sia accorto o vuole ostentarmi indifferenza? Mi arrendo. Termino infine, applausi di rito, c’è una domanda di uno studente, rispondo, saluto dal palco e scendo, i prof, tutti tutti, dovunque si fossero rintanati, si alzano vanno via, nessuno s’avvicina, nessuno mi saluta, figuriamoci se qualcuno per scambiare impressioni, spiegarmi il contesto in cui ho parlato. Niente. Mi ignorano. Forse intendevano manifestare una disapprovazione verso l’iniziativa della scuola? Fuori gli studenti mi salutano allegri, non ce l’hanno con me, è proprio che sono un corpo estraneo.
Questi sono gli appunti. Com’è possibile che i due gruppi abbiano espresso reazioni così diverse? Tiro fuori una mia vecchia idea. Ho sempre pensato che esistano due categorie di insegnanti: quelli che accompagnano gli studenti e quelli che incrociano studenti. Riforme o non riforme, buona scuola o pessima che sia. Lo so, è una lettera lunga questa, ma se continuate a leggermi, proverò a spiegarmi.
Accompagnare. Come pensa (e quindi lavora) l’insegnante che accompagna studenti? Più o meno così: “voi siete i miei studenti di quest’anno. Ciò che so di voi, ciò che a me interessa, è che state avendo un’esperienza umana di formazione. State apprendendo e state capendo: le materie insegnate, il mondo, voi stessi. Io sono qui per darvi una mano. Sono qui per accompagnarvi in questa impresa. Eccitante e difficile. Il mio dovere istituzionale è fare lezioni, interrogazioni e attività burocratiche. Ma il mio compito va oltre. Io vi accompagno. Vi sono venuto incontro all’inizio di questa vostra tappa e vi accompagno fino a quella successiva. A voi saranno presentati modelli di conoscenza, contenuti e metodi. Alcuni ve li presenterò io direttamente, altri li incontrerete tramite altre persone e poi nella vostra vita. Io sarò sempre accanto a voi, vivrò le vostre esperienze e maieuticamente (il vecchio Socrate!) farò in modo che ne prendiate il maggior numero dei frutti”. Questo tipo di insegnante conosce personalmente tutti i suoi studenti, riconosce le loro facce, ricorda le storie, intuisce i sogni, registra i successi e gli scacchi. Si mobilita per loro corpo e anima. Di lei/lui gli studenti si ricorderanno anche dopo anni, la/lo penseranno, ringrazieranno. Lei/lui ha compiuto con loro quell’antico prodigio di trasferimento non di nozioni ma di vita, lei/lui stessa/o è rinata/o mentre loro nascevano al bene, al bello, al vero, per dirla con Benedetto Croce.
Incrociare. Come pensa l’insegnante che incrocia studenti? “Quest’anno siete voi i miei studenti. “Questi o quelli” — il presente o gli anni passati — “per me uguali sono”, io ho il dovere di fare lezione, interrogare, fare consigli e cose di questo genere. Quest’anno ho incrociato voi, l’anno passato altri e così via. Ho un programma da svolgere con voi, comincia da A e finisce a Z. Speriamo di riuscire a svolgerlo tutto in tempo. Sta a voi seguirmi, sta a voi studiare. Io farò il mio dovere, ma il grosso dovete farlo voi. C’è chi studierà e chi no, fatti vostri non miei. Io spiego, interrogo e metto voti. Alla fine dell’anno si vedrà. Punto”. L’insegnante che incrocia conosce “studenti”, “giovani”, cioè categorie, generazioni, non singole persone. Per lui non c’è Francesco, Ada, Giulia o Maurizio, per lui ci sono “loro”. Di lui ci si dimentica facilmente, oppure ci si ricorda per riderne insieme tra vecchi compagni di scuola.
La differenza tra i due modelli sta nella “relazione”. Nel primo è “ritmica” (come mi piace dire), nel secondo no. Ritmica. Cioè le persone coinvolte nella relazione vanno “a tempo”, condividono il tempo dell’apprendimento, che è musicale se fatto insieme, l’insegnante dà un “la”, gli studenti — pur nelle differenze, uno per uno, ma poi tutti insieme — rispondono a tono. E viceversa. La loro relazione cresce come una sinfonia beethoveniana, e più tempo suonano insieme, meglio la musica verrà. Alla fine dell’anno gli studenti sono cresciuti, e l’insegnante con loro. Nel secondo modello non c’è condivisione ritmica oppure è disturbata. Ciascuno suona la sua musica, ne viene fuori una cacofonia di estraneità reciproca, oppure il silenzio.

Una mattina nell’auditorium di una scuola viene invitato un prof universitario, che presenta un monologo teatrale tratto da un suo libro. Vi sono insegnanti che accompagnano i propri studenti in questa esperienza. Li accompagnano: “io sto con te, accanto a te, insieme seguiremo questa cosa che il prof venuto da fuori ci presenta”. Vi sono poi insegnanti che non accompagnano i propri studenti, li hanno depositati nell’auditorium e lasciati alle loro musiche individuali o di microgruppo. È qui la differenza tra i due gruppi di studenti.
Poi certo questa interpretazione si basa su una descrizione impressionistica. Posso aver sbagliato, ma qualcuno (dei presenti) avrebbe una interpretazione migliore?

Torno alle “cose concrete” di papa Francesco. La scuola italiana è quella che è. Ma un po’ tutte le scuole nel mondo occidentale attraversano una grande crisi. Di fronte a derive così ampie e generalizzate che si può fare? Mancano — appunto — “punti di riferimento” di grande respiro pratico e ideologico. Vero, certamente vero. Ma tu? tu “che cosa hai fatto, che cosa hai deciso, come ti muovi?”
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