
Antropologo a domicilio n°17 (24.4.2017)
Sulle strisce pedonali in città un passante e un automobilista si prendono a male parole. Poi avviene nella folla di una metro, in un ufficio postale, in un pullman di linea, in un treno, in un luogo di lavoro e in tanti altri luoghi. Spettacoli “normali”, che non fanno più impressione a nessuno. Siamo abituati ad assistere a scontri verbali.
In televisione li vediamo innumerevoli volte nei talk show, e sappiamo che alcuni personaggi hanno fatto la loro fortuna televisiva grazie all’audience che fanno salire non appena cominciano a sbraitare contro gli altri ospiti. Apriamo Facebook, seguiamo l’hashtag più cliccato, entriamo nella chat di qualunque giornale o TV o artista o politico, l’offerta di parolacce, vaffa, aggressioni verbali di ogni tipo è il pane quotidiano. Rabbia, rabbia, rabbia che avvolge le relazioni quotidiane personali e online. Ok, così va il mondo, cosa farci, la rabbia in fondo è un’emozione umana, se ci si trova in certe condizioni, no? e poi particolarmente in un tempo di crisi economica che ha reso le persone costantemente arrabbiate per il peggioramento delle loro condizioni di vita, no?
No. Invece no. Non è “normale”. Per almeno tre ragioni. Perché non esiste una “norma” dell’espressione di rabbia. Perché non è corretto definire le forme di violenza verbale cui siamo abituati, semplici espressioni di rabbia individuale. Infine perché non è automatico e universale questo rapporto di causa (crisi) effetto (rabbia).
Studiando società diverse in giro per il mondo, gli antropologi hanno mostrato da decenni ormai che la rabbia non è mai un problema individuale, ma sempre sociale, collettivo. Cioè di ordine culturale. Vi sono società in cui l’espressione di rabbia individuale è fortemente scoraggiata. Cioè mostrarsi arrabbiati in pubblico è un comportamento sanzionato dalla comunità, che può provocare persino l’emarginazione sociale di chi lo adotta spesso. E dall’altro lato vi sono società dove l’espressione della rabbia è quasi un dovere che devono soddisfare soprattutto i maschi adulti che vogliano avere un ruolo sociale riconosciuto. Ciò significa in altre parole che la rabbia non è una reazione istintiva (magari di persone un po’ colleriche), ma è un comportamento culturale, cioè un “modello” cui si viene addestrati. Fin da piccoli. Società pacifiche o società guerriere assegnano un ruolo diverso all’espressione della rabbia individuale.
Però si potrebbe sostenere: se la rabbia individuale — causata da circostanze avverse della vita — non può essere espressa, la persona verrebbe repressa nella sua “naturale” esigenza di “sfogarsi”. E dunque prima o poi esploderà, magari con conseguenze peggiori. Quando proprio non ci si fa più a reggere alla voglia di esplodere — si dirà — meglio un “vaffa” ogni tanto, che una pistola alla fine, no? Sembra ovvia questa considerazione, ma ancora una volta c’è da non essere d’accordo.
Che la rabbia covata dentro debba essere prima o poi cacciata fuori in forma aggressiva è un modo di considerare la psiche umana come se fosse una caldaia che non può superare un certo grado di compressione. Questa è la teoria “idraulica” della psiche umana: se comprimi troppo, scoppia. In passato ha avuto grande fortuna tra gli studiosi. Anche importanti, come Sigmund Freud, come Konrad Lorenz. Ma molti psicologi più di recente hanno mostrato in sperimentazioni concrete che questa teoria non funziona e che la manifestazione di aggressività più che essere un’esplosione di una frustrazione compressa è un comportamento che si apprende. Gli antropologi lo avevano già sostenuto: le società in cui l’espressione della rabbia individuale non è favorita non sono società in cui si arriva più facilmente a violenze fisiche o addirittura a omicidi. Anzi sembra il contrario.
E allora?
Allora l’espressione individuale della rabbia è un “modello” che funziona come gli innumerevoli “modelli” di cui è fatta una cultura. Se lo si ha a disposizione, lo si apprende, lo si valorizza, lo si usa. Lo si “indossa”. Se invece non c’è, altre diventano le strade delle mediazioni sociali, delle relazioni conflittuali, delle reazioni alla frustrazione. Per dirla più semplicemente: se io vedo usare il “vaffa” intorno a me, lo userò anche io, allo stesso modo in cui fumo se vedo fumare, sputo a terra se vedo sputare a terra, eccetera. Cioè se è consentito o addirittura auspicato fare certe cose in certe condizioni, è molto probabile che le farò anche io (certo posso non usare il “vaffa”, fumare, sputare a terra anche se vedo altri farlo, ma questo comportamento “virtuoso” mi sarà più difficile dell’altro, per vari motivi, tutti riassumibili dentro la logica del “non mettermi fuori dal Noi”).
Gli antropologi hanno mostrato queste cose da decenni. Gli psicologici sperimentali sono con loro. Oggi poi molte delle loro considerazioni sono rafforzate dagli studi sul comportamento umano che si ispirano alle neuroscienze. Tutti convergono in particolare su un tema centrale. Il seguente: siamo animali mimetici, cioè siamo consapevolmente ma soprattutto inconsapevolmente portati a imitarci reciprocamente. A volte adottando, appunto, un “modello” culturale. Altre volte semplicemente in virtù dell’attivazione di meccanismi mimetici neuronali. Primi fra tutti — ma non solo — i “neuroni specchio”.
(Iper-)semplificazione finale con piccola morale conclusiva. Più ci arrabbiamo e più gli altri intorno a noi si arrabbieranno (come al contrario più sorridiamo e più gli altri intorno a noi sorrideranno). E così finiamo per vivere in un mondo di rabbia, abituarci a essa e persino poi eleggere politici che hanno fatto della rabbia la loro strategia elettorale, i quali non faranno che alimentare e accrescere il modello della “rabbia” fino al rischio di costruire relazioni sociali e politiche nazionali e globali bellicose. Si dirà: come innumerevoli volte in passato nella storia dell’umanità. Sì, con la differenza però che oggi non ci sono archi e frecce ma testate nucleari.
