Antropologo a domicilio n°14 (13.3.2017)

Uno studente iraniano discute la sua tesi di antropologia culturale in una seduta di laurea all’università di Roma tre. Parla fluentemente in italiano e in questa lingua ha scritto il suo lavoro. Conosce più o meno bene anche altre lingue, inglese, spagnolo, un po’ di francese. Oltre alla sua lingua madre ovviamente. In un passaggio della sua presentazione dice “nostra” a proposito della civiltà occidentale e a me viene da sorridere. Non di ironia, ma di compiacimento quasi gioioso. Si laurea con me, ma non è da questo il mio compiacimento. È iraniano, come ho detto, il suo paese una volta si chiamava Persia. La “civiltà” occidentale comincia con le guerre persiane, Dario, Serse, i loro terribili eserciti rappresentavano nell’immaginario di fondazione del nostro mondo l’antagonista per eccellenza, la potenza oscura e irrazionale che era al di là dei confini del mondo ordinato della razionalità greca. Di qua c’erano le città greche, c’era la democrazia di Atene, c’erano Tebe, Corinto, persino Sparta era nell’ordine positivo di civiltà. Al di là, “loro”, l’alterità selvaggia e irrecuperabile. Un immaginario ancora vivo oggi, se si pensa al film di qualche anno fa “Trecento”, o anche ad “Alessandro”, con un sex-symbol hollywodiano come Brad Pitt a impersonare l’antico re “nostro”. Ma lui, lo studente persiano, imperturbabile, si ficca nel campo “nostro”, dice “nostra” della civiltà occidentale, e io sorrido, e non di ironia ma di gioioso compiacimento.
Nell’Ottocento c’era fede assoluta nel Progresso, una vera e propria religione in proposito. Si credeva che le sorti dell’umanità sarebbero andate inevitabilmente migliorando, fino a raggiungere una sorta di paradiso in terra. Le guerre e i genocidi del Novecento hanno fatto piazza pulita di quella fede e pseudo-religione. Ahinoi, non c’è alcuna sicurezza che il tempo futuro ci riservi “magnifiche sorti progressive”. Anzi, al contrario parrebbe che il futuro nasconda quasi fiamme di distruzione totale. Eppure quello studente iraniano mostra un possibile orizzonte positivo - ed è per questo che ho sorriso ascoltandolo - un orizzonte di speranza (e di impegno collegato).
Lui parla italiano e si laurea in Italia. A questo paese è affezionato. Ma non perché ha rinunciato alla sua patria di origine per diventare altro. Al contrario è attaccato alle sue origini, ma, semplicemente, a queste ha aggiunto l’attaccamento all’Italia. E poi anche all’Argentina, dove ha vissuto per un po’. E alla musica reggae, la cui passione per così dire porta in testa, perché i suoi capelli sono raccolti in dread. Che però ha fatto crescere lunghissimi e porta in un modo che ricorda antichi sapienti orientali e recenti musicisti parsi. Senza andare oltre nella vivisezione della sua identità, lo studente iraniano, il suo nome è Reza, rappresenta un modello di giovane uomo (e ci sono anche giovani donne come lui) che scavalca i muri che vengono dal passato. Nel mito di fondazione occidentale, Grecia e Persia rappresentano due mondi alternativi che si scontrano. Lui li attraversa entrambi e ci “abita” alternativamente. Quando si pone nella prospettiva dello sguardo occidentale, non esita a dire “nostra” civiltà occidentale, perché sta ragionando come-se fosse occidentale. L’Occidente è nella sua vita un piano su cui collocarsi. E perché non potrebbe, se per lui l’Occidente è una delle tante invenzioni culturali della specie umana di cui è membro? Quando poi si pone nella prospettiva del suo mondo originario, sa ben dire “noi persiani”. Un altro piano su cui collocarsi. Un’altra grande invenzione culturale. E potrebbe dire poi, “noi rasta”, e poi dire magari “noi in Argentina amiamo il tango e Maradona” e ancora quante altre “identità” ha conosciuto e apprezzato e ha fatto sue. Piani su cui si colloca alternativamente, oppure simultaneamente in maniera “meticcia”, e questo ne fa un alfiere di un mondo che verrà (o almeno che potrebbe venire). Reza indossa identità mobili, non rigide, non di cemento armato. Sceglie l’appartenenza, non la eredita come una tara. E ne sceglie più d’una, ammirato della creatività umana che si è manifestata in tanti modi diversi nella polifonia
Ecco, lui è al di là di ogni muro possibile, ogni barriera, ogni limitazione allo spirito migrante e avventuriero della specie umana. Lui attualizza questo spirito, vivo fin dalle origini dell’Homo Sapiens duecentomila anni fa, e dei suoi antecedenti, gli australopitechi che abbandonarono l’Africa per popolare altre parti del mondo due milioni di anni fa. Ciò che propone Reza con la sua vita è un futuro che torna alle autentiche origini dell’umanità. E con lui milioni di giovani in tutto il mondo, generazione Erasmus in testa, ma non solo questa, tutti quelli che godono dei vantaggi della globalizzazione, che pur ci sono — non è solo perdita e disorientamento, povertà e finanza — e che vanno nella direzione della rottura di vecchi schemi, importanti nel passato ma oggi minacciosi del futuro: nazione, etnia, identità religiosa, quando sono intesi come camere di sicurezza in cui rinchiudersi e non uscire, né fare entrare niente e nessuno. Neppure aria nuova e pulita, figuriamoci altri esseri umani.
Ma non c’è da farsi grandi illusioni. L’avvenire potrebbe essere una spaventosa implosione dell’umanità in progressive frammentazioni omicide e genocide che spegneranno ogni futuro. Però la storia non è mai a senso unico: né quello della fede nel Progresso, né dell’attuale sconforto come se si fosse condannati a un inevitabile Regresso. Si potrebbe, si potrà riuscire a sfuggire alle mine che affiorano giornalmente lungo il cammino del nostro comune futuro umano (e della Terra per intero). E allora, ecco: le generazioni rappresentate da Reza, studente iraniano che si laurea nell’università italiana, sanno già come camminare speditamente per entrare nel mondo che potrà essere.
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