Antropologo a domicilio n°72 (2021)

Mi è stato chiesto di esprimere la mia idea a “Radio anch’io RAI radio” sulla terribile vicenda di Saman, la ragazza pakistana uccisa dai suoi familiari per aver rifiutato un matrimonio combinato o forse per aver abiurato alla religione islamica, non è del tutto chiarito. Nello spazio dei pochi minuti concessomi ho cercato di esporre alcune idee, che voglio qui riassumere, magari con in meno qualche ansia del tempo che corre.
Quattro punti

1. Che si uccida in base a norme e consuetudini che si ispirano a valori religiosi non è una novità, né una esclusiva di “altre culture” remote. Nelle religioni del Libro è fondativo il sacrificio di Isacco da parte del padre Abramo, mancato per intervento dell’angelo non per decisione di Abramo. Questo per ciò che riguarda i valori religiosi. In più, per ciò che riguarda i valori patriarcali del diritto di vita e di morte degli uomini nei confronti delle donne, c’è da ricordare che in Italia il delitto d’onore venne cancellato dal Codice penale solo nel 1981, appena quarant’anni fa. Oggi ci fa giustamente scandalo questo tipo di valore, ma lo abbiamo messo alle nostre spalle solo da pochi decenni. Almeno sul piano del diritto, perché poi sul piano dei comportamenti, numerosissimi femminicidi che le cronache quotidiane ci consegnano sempre più frequentemente sono dovuti proprio alla pretesa maschile di impedire una libertà femminile.


2. Chi arriva ad uccidere la propria figlia per aver rifiutato un matrimonio o per essere uscita dalla istituzione religiosa lo fa in nome dei suoi valori, non per una brutale aberrazione. Siamo dunque di fronte a un conflitto tra valori. I nostri, che mettono al primo posto la libertà di scelta individuale e il rispetto della vita umana, e altri, che invece mettono al primo posto valori diversi: religiosi o semplicemente patriarcali. Dire che sono valori non significa accreditarli o “valorizzarli”, ma solo registrare che non ci sono da una parte valori dall’altra non so cosa, istinti o disumanità o altro. Quotidianamente ci impegniamo perché vincano i nostri valori, in quanto consideriamo gli altri come dis-valori. Ma se vogliamo guardare in faccia la realtà dobbiamo tener presente che vale il reciproco: ciò che per noi sono valori per altri sono disvalori (Boko Haram è un'organizzazione terroristica nigeriana: il suo nome in lingua hausa significa "la scuola occidentale è sacrilega"). Noi vogliamo che vincano i nostri valori poiché la loro qualità è per noi evidente e perché sono il frutto della nostra storia e delle nostre tradizioni. Però se vogliamo essere realistici dobbiamo tenere conto che ciò che per noi è autoevidente per altri non lo è. Dunque viviamo un’epoca di scontro tra valori.
3. Attenzione però: scontro tra valori non significa scontro tra culture. Gli antropologi, che pure introdussero il concetto di cultura nel discorso pubblico, oggi vedono con sospetto l’uso indiscriminato di questa parola. Poiché essa fa apparire il mondo diviso in zone di colore diverso e omogeneo: come in una carta geografica che assegna colori diversi a stati nazionali diversi. Ma le culture non sono come i confini nazionali, non sono un tutto-chiuso-in-sé, non sono realtà omogenee, sfere compatte che cozzano fra loro, la nostra contro l’altra cultura. Saman stessa ne è una prova. Come potremmo dire che lei apparteneva a una presunta "cultura pakistana" compatta come un mondo chiuso, quando è stata uccisa per aver rifiutato valori culturali nei quali non si riconosceva? Proprio la sua vicenda è la prova che non esiste una cultura pakistana (o islamico-pakistana) tutta d’un pezzo. E come collocheremmo la posizione di Usama Skindar, vice presidente dei giovani pakistani in Italia, il quale ha detto a proposito del delitto: “Francamente sono davvero stufo. E come me tanti giovani pachistani che vivono in Italia non ce la fanno più a sopportare certe usanze. Tradizioni che vogliono inchiodarci a una cultura arretrata, che non rispetta le donne e le nostre scelte di giovani che vivono in un contesto nuovo, slegato da costumi provenienti da un retroterra che spesso neppure conosciamo“. C’è più vicinanza e familiarità di Saman (che è morta per affermare i nostri valori) e di Skindar (che dice: “credo che anche i nostri genitori debbano essere educati, accompagnati alla sfida della diversità e della contaminazione”) con noi che con i loro genitori. Lo scontro tra valori non è tra “culture”, poiché è vivo dentro queste, tra chi persegue la conservazione di vecchi modelli e chi invece lotta o semplicemente si apre al cambiamento. Molte volte le linee di questo conflitto coincidono con quelle tra generazioni e tra generi diversi. Dunque dire che lo scontro è tra Occidente e Islam significa non guardare in faccia la realtà e limitarsi a etichette comode per i tribuni politici, non per orientarsi nella realtà.

4. Queste considerazioni mettono in causa lo stesso uso del pronome “noi”. Noi chi? Noi italiani contro pakistani? (europei contro islamici?) o noi che crediamo nel valore della libertà e della vita contro coloro che invece danno priorità ad altri valori? Formulo in maniera secca la domanda: la povera Saman faceva parte di Noi, o invece vogliamo collocarla in mezzo a Loro? Cioè, la escludiamo da Noi dopo che è stata esclusa da Loro? Pensiamoci bene dunque quando usiamo queste categorie: Noi-Loro. Se vogliamo usarle, dovremmo essere in grado di dire che Saman faceva parte di Noi. E che Skindar fa parte di Noi. In altre parole dovremmo essere capaci di fare un salto intellettuale e uscire da ragionamenti che chiudono in ghetti e danno etichette etniche a chi non vuole starci dentro (proprio di recente uno studente cinese mi confessava che ormai si sentiva estraneo dovunque: in Italia era visto come cinese e in Cina, quando andava in visita ai suoi nonni, era visto come italiano. Cioè, dappertutto era "altro da noi").


5. Che fare in questo mondo interconnesso in cui il conflitto tra valori (reciprocamente dis-valori) rischia di incartarsi su se stesso e chiudere il futuro invece che aprirlo? (E il fondamentalismo è un segnale di questo conflitto?) Un compito decisivo spetta alla politica, è ovvio. Che dovrebbe favorire quelli come Saman e Skindar che dai mondi dell’immigrazione si battono per i diritti. Ma anche noi che crediamo in questi valori dobbiamo fare la nostra parte. Il dialogo, l’incontro, il rifiuto delle ghettizzazioni, il rifiuto delle etnicizzazioni dovrebbe diventare il nostro approccio alla realtà sociale. La scuola fa molto in questa direzione. Parliamone bene, anzi benissimo. Fin dalle elementari in tutte le scuole d’Italia ci si esercita al dialogo, all’apertura, all’incrocio tra diversità per creare il nuovo. Ma una volta finita la scuola? Ciò che viene promesso ai bambini e ai ragazzi nei banchi, cioè un mondo esterno accogliente, lo sarà dopo la maturità? Non occorre allora guardare con nuovi occhi alle questioni dei diritti dei figli di immigrati di seconda e terza generazione a tutti gli effetti italiani tranne che per il riconoscimento della cittadinanza?
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