Antropologo a domicilio n°41 (31.8.2018)

Novemila anni fa, in Turchia, nei pressi di Çatalöyük in Anatolia, c’era un villaggio contadino dove vivevano migliaia di persone. In modi per noi oggi inconcepibili. Perché le case erano costruite l’una addossata all’altra. Senza strade in mezzo, vicoli, passaggi. In questo villaggio si camminava sui tetti. E l’unico modo per entrare in casa era di passare per il tetto. Una scala che dal basso portava sul tetto, un’altra che scendeva dentro casa. Le case erano fatte di mattoni di fango, molte erano affrescate, e portavano corna di toro come emblemi. Ogni casa era per i vivi e per i morti. Questi venivano tumulati in posizione fetale sotto panche distribuire lungo le pareti. Ogni famiglia curava i propri morti, non c’era un tempio comune, probabilmente non c’era un culto condiviso. E non c’erano piazze, né edifici “pubblici”. Cioè non c’erano luoghi dove si forgiasse uno spirito collettivo, un’identità, un “Noi” di Çatalöyük. Con tutte le prudenze del caso per l’enorme distanza temporale e la limitatezza della documentazione archeologica, sembra che per loro fosse possibile vivere insieme senza ricorrere a un “Noi” chiuso. Con una socialità senza identità circoscritta. Le credenze, i riti, i simboli erano condivisi, ma nessun “totem” centrale li rendeva assoluti, del tipo: “Noi siamo giusti, tutti gli altri sbagliano”. Di conseguenza nessuna spinta a differenziare nettamente e drasticamente un Noi da Loro. Ma com’è possibile?
Questa è una domanda capitale oggi, in un momento storico in cui c’è un ritorno ai nazionalismi, alle identità forti, al “prima Noi”. E davanti agli scempi (novecenteschi e non solo) di questi, provare a rispondere equivale a immaginare una socialità senza identità collettive forti, senza “Noi” contro tutti gli “Altri”. L’antropologia ci aiuta a riflettere sulle forme dell’umano, sui modi (diversi) in cui gli esseri umani hanno costruito le loro storie. In questo caso sul rapporto tra socialità — che in quanto tale appartiene alla natura umana — e identità collettiva — che è frutto di invenzioni storiche.
Gli studi archeologici più recenti sostengono che a Çatalöyük la socialità minima era al livello della famiglia (che tipo di famiglia poi, è arduo stabilire), e ogni unità familiare si aggiungeva alle altre. Dunque operava un qualche meccanismo di inclusione sociale che partendo dalla singola famiglia associava le persone. Come le case si addossavano una sull’altra, così le famiglie si accostavano l’una all’altra. Cioè a Çatalöyük le persone convivevano per un effetto quasi automatico dello stare insieme: non se si era bianchi o neri, alti o bassi, mangiatori di carne o di pesce, credenti in questo piuttosto che in quello. Dal profondo del passato, Çatalöyük ci parla di un’utopia che fu possibile. E che forse potrebbe esserlo in futuro. Essere animali sociali senza per forza essere ostili a chi non fa parte del nostro Noi. Cioè espandere il Noi a chi ci viene a vivere accanto. E con lui trovare un accordo di convivenza e socialità che non parta da una presunta identità preesistente, “razza”, etnia, religione, ceto sociale, ma dalla vicinanza. Tu sei mio vicino di casa ed è quanto basta per trovare un accordo (ma non automatico: tu ed io dobbiamo cedere qualcosa per guadagnarne altre dalla convivenza, dobbiamo accettare compromessi). I vantaggi della socialità c’erano tutti: solidarietà, aiuto reciproco, scambio, piacere dell’amicizia, feste. Senza però quelle spiacevoli conseguenze che normalmente si portano dietro le identità forti, cioè i Noi contro gli Altri, gli scontri, le guerre. Certo, è difficile anche solo provare a entrare nella mentalità di popoli vissuti tante migliaia di anni fa. Ancor di più se appaiono così socialmente distanti da noi. Dopo secoli di identità forti, di nazioni in guerra, di fondamentalismi monoteisti, di confini difesi con il sangue facciamo fatica a immaginare un atteggiamento così facilmente inclusivo. Ci è molto più facile comprendere il ritorno dei nazionalismi che seminarono lutto nei decenni passati piuttosto che una utopia di esseri umani accanto ad altri esseri umani, senza distinzioni di colore, lingue, religioni, cibo, eccetera. Perchè siamo abituati al fatto che a noi non basta che gli altri siano esseri umani, ma occorre poi stabilire quale etichetta fittizia e inventata portino: colore, etnia, religione. Come se l’etichetta che i nuovi venuti si portano addosso — che qualcuno mise loro chissà quando, dove e perchè — dica tutto di loro. Cioè risponda alle domande su chi siano. Come se le riposte fossero dentro l’etichetta e non dentro la loro vita.
Proviamo a riflettere su cosa sia una socialità senza un Noi. Proviamo a essere di Çatalöyük: una nuova famiglia viene a vivere accanto a noi. Chi sono? Non risponderemo cercando di loro l’appartenenza etnica o nazionale. Forse ci chiederemo dove stavano prima e perchè ora sono qui. Ci chiederemo pure se sono lavoratori e di che tipo, cosa mangiano, in cosa credono, ma non per una conseguente decisione di esclusione/inclusione, bensì per prenderne atto, eventualmente accordarsi. Magari ci interesserà più sapere se hanno figli da sposare, con cui sposare i nostri. E poi se possiamo trovare beneficio dalla vicinanza, per esempio lavorando insieme, studiando, facendo musica e festa, curandoci quando siamo malati, e poi tutto ciò che fa piena di senso una vita. Vissuta con gli altri. Ci chiederemo forse chi sono i loro morti, quali le memorie, i valori. E cercheremo compromessi, contaminazioni reciproche. Non perderemo tempo a chiederci a quale razza appartengono — o a quale nazione o religione o etnia — né ovviamente decideremo di accoglierli o rifiutarli in base a quelle caratteristiche. Ma è possibile una vita sociale del genere? Invece che rispondere a questa domanda, formulerei un’altra domanda: ci sono limiti alla creatività umana applicata al desiderio di vivere in pace e meglio e tutti?
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